Alessandro Leogrande, Fumo sulla città
Fandango, 270 pp. 17,50 euro
Per capire come uscire dal pantano dell’Ilva di Taranto forse è utile cercare di capire come ci si è arrivati. E per farlo non basta seguire le carte del processo ai Riva, ma bisogna allargare lo sguardo e cercare di comprendere come le cose sono cambiate a metà degli anni novanta, quando dopo la privatizzazione i controlli sulla sicurezza lavorativa e ambientale sono diminuiti.
Per comprendere come mai non si è reagito, diventa allora utile considerare cosa ha significato l’acciaieria nel tessuto sociale della città da quando fu costruita all’inizio degli anni sessanta, diventando in poco tempo il maggiore datore di lavoro di un’intera regione, il fornitore di un posto a tempo indeterminato per migliaia di persone che venivano portate ogni mattina a lavorare da paesi anche molto distanti, imponendo una “monocultura” dell’acciaio che non lasciava spazio a sviluppi di altro tipo. E bisogna anche considerare che mentre questa grande macchina entrava in crisi, a Taranto andava affermandosi una nuova politica, quella rappresentata da Gianfranco Cito, versione locale del leghismo o del berlusconismo nella sua veste più becera.
Il libro di Alessandro Leogrande, autore di inchieste importanti e profondo conoscitore di Taranto, aiuta a percorrere questa vicenda che non è solo un simbolo, ma una parte importante di ciò che è successo in Italia e forse anche più in là.
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