Peter Szendy, Tormentoni
Isbn, 105 pagine, 12 euro
Nel suo bellissimo film Parole, parole, parole, Alain Resnais metteva all’improvviso in bocca ai suoi attori brandelli di canzoni famose per evocare immediatamente le emozioni che stavano provando. L’espediente era reso possibile dalla confidenza che più o meno tutti abbiamo con i grandi successi musicali. L’anno scorso è stata Get lucky dei Daft Punk.
Quest’anno sarà un altro il motivetto che, volenti o nolenti, dalla fine dell’estate, ci ritroveremo nella testa per qualche anno, forse per sempre, pronto a risbucare inaspettatamente dalla tana che si sarà scavato nella memoria.
Di queste canzoncine, che i tedeschi chiamano
Ohrwürmer, cioè tarli dell’orecchio, sappiamo ormai parecchie cose: come nascono, come vengono promosse, quanti hooks (cioè ritornelli capaci di colpire l’attenzione) devono avere oggi secondo i più aggiornati studi cognitivi. In questo libro apparso qualche tempo fa il filosofo e musicologo francese Peter Szendy va in un’altra direzione e prova a scandagliare il mistero della loro forza.
Rivela che i tormentoni musicali tendono a celebrare se stessi, ad autocommemorarsi (basti pensare a Killing me softly with his song, sul quale il libro si chiude). Evocazioni di qualcosa di molto intimo e, al tempo stesso, condivise praticamente da tutti, le canzonette condividono quest’ambiguità con il denaro, la fama e altre cose che ci condizionano la vita.
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