Negli anni settanta del secolo scorso, il sociologo argentino Guillermo O’Donnell si mise in testa di fare una ricerca sulla vita quotidiana nel suo paese sotto la dittatura. Intervistò molte persone, gente comune, chiedendo cosa ne pensassero della situazione sociale e politica del paese. In tanti risposero che erano contenti di vivere in un paese in cui regnavano ordine e disciplina. Si poteva andare tranquilli per strada!

La grande intuizione di O’Donnell, che dovrebbe essere citata nei manuali di ricerca sociale, fu quella di tornare dalle stesse persone a dittatura crollata, quando l’orrore dei desaparecidos e della guerra sporca era ormai di dominio pubblico. Disse loro che per un infortunio tecnico aveva smarrito le interviste di qualche anno prima e che dovevano rispondere di nuovo alle stesse domande, possibilmente cercando di ricordare quello che gli avevano detto. Come avrete capito, le stesse persone risposero in maniera totalmente diversa. Il fenomeno venne analizzato con la formula “acomodar el pasado al presente”: testimonia un gigantesco processo di aggiustamento retroattivo dellamemoria collettiva. Un viaggio nel tempo della coscienza.

La cosa mi è tornata in mente giusto ieri, scorrendo la timeline, la linea del tempo che viviamo stando sui social network ogni giorno e a ogni ora, a proposito di eventi molto meno tragici e criminali. D’improvviso, decine di seguaci di Beppe Grillo aprono gli occhi e si indignano. La maggior parte di quei parlamentari che adesso si ribellano e molti degli “attivisti” che oggi si inalberano di fronte al dominio assoluto di Grillo&Casaleggio, fino a qualche mese fa giravano la testa dall’altra parte quando facevi notare loro le incongruenze dei processi decisionali e le stramberie della comunicazione pentastellata.

Il rischio è che la cosa finisca esattamente in questo modo, che si passi attraverso un processo di accomodamento della memoria collettiva, come è avvenuto per il ventennio berlusconiano. E invece c’è bisogno di capire di cosa è stato l’effetto questo affidarsi cieco e irrazionale a un sito web gestito da un comico e da un manager da parte di un numero impressionante di italiani, trasversali alle classi e alle culture politiche.

L’unico modo per affrontare il cupio dissolvi del grillismo, o almeno la sua trasformazione irreversibile delle ultime ventiquattr’ore, è quello di coglierne le caratteristiche profonde. Dopo la triste parabola dell’antiberlusconismo (ideologia ad personam incapace di cogliere le cose essenziali), non bisogna cadere fuori tempo massimo nella retorica inutile dell’antigrillismo. Viviamo nel paese che non ha mai vissuto una rivoluzione, secondo la nota affermazione di Umberto Saba.

Il grillismo in questi ventiquattro mesi ha detto cose giuste e cose orrende. Ha usato la parola “rivoluzione” ma è stato il ponte che ci ha traghettato verso la nuova fase. È servito a recintare e mantenere sotto controllo grossi pezzi di società in libera uscita dalla cosiddetta “seconda Repubblica”. Ha illuso milioni di persone che il cambiamento sarebbe arrivato utilizzando la rete come un reality show o come Striscia la notizia: l’insurrezione comoda da casa, non sul televisore ma sullo schermo del computer. Per questo, ora che la retorica “gentista” viene agitata, da sponde opposte e con differenti frame, da Matteo Salvini e Matteo Renzi, Grillo appare d’improvviso affannato, vecchio. In crisi di audience.

Giuliano Santoro scrive sul Manifesto. È autore di diversi libri. Tra gli altri: Su due piedi, reportage scritto durante un viaggio di un mese a piedi in Calabria (premio Alvaro 2012); Un Grillo qualunque e Breaking Beppe, sul Movimento 5 stelle; e Cervelli sconnessi sul net-liberismo e la stupidità digitale.

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