Stefano Valenti, La fabbrica del panico

Feltrinelli, 118 pagine, 11 euro

Opera prima di un valtellinese-milanese che va verso i cinquanta, rientra a pieno titolo nella serie di romanzi e inchieste che, con la crisi, si addentrano di nuovo nel mondo del lavoro, a partire dal campo minato della fabbrica.

È nettamente divisa in due parti: nella più lunga il narratore evoca la lenta morte per cancro da amianto del padre – operaio alla Breda e pittore dilettante – che, senza edipici confronti, ricorda la sorpresa e durezza del primo Volponi ma anche l’Antoine Bloyé di Nizan, lo scavo sentimentale di Pratolini (

Cronaca familiare), la tenerezza di Agee (Una morte in famiglia). Vi si aggiunge il peso della malattia del narratore: un disagio anzitutto esistenziale. La seconda è una galleria di morti e malattie, intorno a un comitato di lotta e a un processo ai padroni che un tribunale manda assolti.

La presa di coscienza dell’entità del problema amianto è recente, ma tradizionali sono l’infamia padronale e l’ipocrisia della giustizia. I veloci ritratti della seconda parte entrano nella nostra memoria con una precisione sconvolgente.

Debito filiale verso la parte più bella di una generazione schiacciata dalle logiche dello “sviluppo” e che pure ha creato la ricchezza del paese, il narratore di La fabbrica del panico sa quando mettersi in campo e quando lasciar la parola agli altri e che i protagonisti devono essere loro, le loro vite perdute.

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