Antonio Pascale, Le attenuanti sentimentali
Einaudi, 232 pagine, 19,50 euro
Si è in dubbio se concederle, queste attenuanti, a un autore che dissipa i suoi talenti facendosi intrattenitore nell’esercizio di un’autoironia che evita di farsi molla di apertura e cambiamento, con una sincerità insieme reale e astuta nel chiedere al lettore un’ambigua compiacenza e solidarietà, anche quando inventa e si inventa: la confessione come captatio benevolentiae. Ha paura di volare, questo libro troppo romano e binswangeriano, coerentemente a una sorta di laicismo tipico della cultura dominante, ferma al qui e adesso, attenta a evitare gli scogli della depressione come della rivolta alla mediocrità.
“In questi anni ho imparato a sentire il pubblico”, dice l’autore, che vuol piacere al senso comune del nostro presente, anche se è davvero poco attraente. Ci sono in queste divagazioni brani belli e potenti (e considerazioni ecologiche provocatorie e stimolanti – l’autore è esperto di agricoltura), ma l’angoscia nasce anzitutto dal passare del tempo, con i figli che crescono e un padre che ha paura di invecchiare e non crede in nessuna maturazione. Il finale è angoscioso: “Questo nostro io, che cavolo è? Gli affidiamo tutto, la coscienza, l’introspezione, l’interiorità, l’autenticità, l’anima, il sentimento, le emozioni, la fiction e l’autofiction, la pratica e la teoria, insomma, gli affidiamo tutto e non è niente”.
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