Aleksandar Hemon, Il libro delle mie vite

Einaudi, 176 pagine, 17 euro

Sono tanti i bambini e i giovani che negli ultimi decenni si sono dispersi in Europa e negli Stati Uniti venendo dai paesi tormentati dai conflitti, dall’Africa o dall’Asia, dal Medio Oriente o dall’ex Jugoslavia, e che scrivono in lingue diverse da quella materna, abitatori di un pianeta globale che privilegia l’inglese dell’impero dei mezzi di comunicazione. Molti campano alla meno peggio buttandosi nelle varie arti, pochi vi fanno una vera carriera e, come sempre, pochi hanno un grande talento e pochi sono veri scrittori.

Uno di questi è Aleksandar Hemon, nato a Sarajevo nel 1964 e dal 1992 a Chicago, la giungla di Sinclair e di Farrell (

La vita di Studs Lonigan, capolavoro dimenticato degli anni trenta), di Bellow, di Algren. Hemon, l’autore di *Il progetto Lazarus**, la racconta vivissimamente, con gli occhi del nuovo cittadino, ma racconta anche Sarajevo, l’infanzia e l’adolescenza, la guerra e i suoi disastri, l’esilio e l’adattamento, gli amori e la morte per cancro – nell’ultimo e straziato capitolo – della sua bambina di appena nove mesi.

Senza sbavature, con la serietà che la vita esige da chi ne è più provato, in una prosa che si fa saggio e romanzo a partire da un’autobiografia purtroppo non originale, da sofferenze e stranezze che non sono solo sue. Molto ne resta in mente, come il capitolo sulle “Vite canine”, ma è l’ultimo capitolo a turbare di più.

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