Massimiliano Virgilio, Arredo casa e poi m’impicco
Rizzoli, 294 pagine, 17 euro
Il napoletano Virgilio (Più male che altro) segue una strada diversa da quelle preferite dai giovani scrittori, e affronta con un umorismo spesso feroce le contraddizioni di un presente faticoso, non solo per i giovani, e spesso angosciante.
Si accosta alla commedia all’italiana migliore, monicelliana, ma capace di evocare anche certi libri della controcultura di un tempo, tra Southern e il primo Richler: l’assurdo del nostro vivere svelato nel racconto in prima persona da parte di un giovane scrittore che parla di un sé straniato, tra il comico e il grottesco – le stazioni di conoscenza dentro una quotidianità genericamente piccolo-borghese, qui partenopea.
La casa di proprietà come sogno comune, e senza comunità; il gioco delle famiglie e delle banche, gli agenti immobiliari, gli amici pronti più a criticarti che ad aiutarti, una ragazza piuttosto inerte, una donna a ore impicciona; “le cose”, come in Perec; e il lavoro su un romanzo,
Ragazzo solo con mutuo, e per arrotondare quello di sceneggiatore per un italo-americano che ha fatto i soldi col porno e progetta un film su padre Pio. Il confronto col padre (“non sono il padre di Kafka ma neanche tu sei Kafka”) e con alcuni eroi letterari, il giovane Holden, Arturo Bandini, Martin Eden. E poi il suicidio: “Se lo fanno i personaggi inventati, mi dico, posso farlo anch’io”.
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