Jack London, Il popolo degli abissi

Mondadori, 274 pagine, 14 euro

È finita da tempo l’ostilità accademica nei confronti di Jack London, capitanata a suo tempo da Emilio Cecchi. Grande narratore di uomini, animali e natura, fu anche giornalista e per un periodo teorico e militante socialista (Il tallone di ferro, gli scritti politici). Questo Popolo degli abissi è certamente uno dei suoi libri migliori, inchiesta e narrazione che merita un posto centrale tra i classici di un genere divenuto con il tempo tra i più vivi e produttivi, anche in Italia. Viene dopo Dickens e La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, prima di Senza un soldo tra Parigi e Londra e della Strada di Wigan Pier di Orwell, e ha la stessa forza dei grandi lavori della scuola di Chicago.

A 26 anni, nel 1902, London è già celebre e si traveste da vagabondo, da disoccupato, vivendo per tre mesi nell’East End di Londra a contatto con una condizione sociale estrema. Racconta ciò che vede, ascolta storie e lamenti, vede lo sfruttamento, prova la fame, legge documenti ufficiali ma l’indignazione non gli basta: riflette, dimostra. Insiste sulle colpe dei ricchi, sulla ipocrisia loro e delle istituzioni che essi dominano, constata cosa la miseria può fare dell’uomo, della donna, del bambino, ma è del capitalismo che parla, della sua brutalità, della sua ipocrisia. Un grande libro, curato da Mario Maffi, accompagnato dalle foto scattate da London.

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