Il film di Hirokazu Koreeda premiato a Cannes lo scorso maggio è approdato nei nostri cinema coronato da un consenso critico insolito, e forse un po’ dubbio: i buoni sentimenti, se presentati con adeguata intelligenza, mettono tutti d’accordo, e anche questa è una delle immani ipocrisie del nostro tempo.
Un affare di famiglia (conosciuto anche come Shoplifters, e con il titolo originale Manbiki kazoku) è un film bello e importante, che dimostra come la cultura giapponese non si sia fermata alle asettiche ed esangui eleganze, spesso insopportabili, alla Haruki Murakami e alla Banana Yoshimoto, e che il suo cinema non è fatto solo di violenza yakuza e balletti di samurai, di ossessioni erotiche e videogiochi floreali, o è ridotto a supporto di invadenti fantasticherie manga.
La grande tradizione di quella cinematografia è anzitutto di stampo umanistico, con autori geniali come Kurosawa, Mizoguchi, Ozu, Kinoshita e tanti altri. I critici hanno richiamato, per il cinema di Koreeda, il nome di Yasujiro Ozu, cantore della famiglia e delle sue piccole gioie e pene. Il regista ha dichiarato di essere stato influenzato dal cinema di Ken Loach, ma rispetto all’opera dell’inglese i suoi film sono meno compiaciuti e “populisti”, e insomma più crudeli.
C’è invece un film del 1969, Shonen (Il ragazzo), di uno dei più grandi nomi delle nouvelles vagues di quegli anni, Nagisa Ōshima, che andrebbe citato perché ha molti punti in comune nel soggetto e nel modo di affrontarlo. Racconta una famiglia di immigrati coreani in Giappone, e un bambino che d’accordo col padre, per contribuire al magro bilancio familiare, si fa investire dalle auto dei ricchi per poi chiedere soldi ai proprietari o alle loro assicurazioni. Anche lì, alla fine scoppiava il caso, ed entravano in ballo giudici e mezzi di informazione.
L’opera di Ōshima è in genere altissima, la sua ricerca e il suo stile erano, sono, molto più personali di quelli di Koreeda, l’arco dei suoi interessi è stato ben più vasto, e il suo sguardo ben più radicale. Questo non toglie nulla al valore delle opere di Koreeda, soprattutto se si considerano i tempi così diversi, e la generale decadenza di un cinema d’autore (di autori veri) che sappia ancora scavare dietro alle apparenze e alle mitologie di un’epoca.
La forza del regista – che oggi ha 56 anni – sta nella capacità di scriversi da solo i film, con abilità di sceneggiatore provetto, e di montarli da solo; sta anche nella sua abilità di dirigere gli attori, e in particolare i bambini. È impossibile non affezionarsi ai suoi protagonisti, e cioè ai suoi attori grandi o piccoli che siano, tutti bravi e tutti difficilmente dimenticabili. La sua è una forma di populismo di stampo antico e sostanzialmente anarcoide: apprezzare del popolo una morale che non è mai la stessa degli altri ceti – borghesi o piccoloborghesi – e ovviamente del potere costituito, di chi fa le leggi, poiché le leggi, dicevano estremizzando molti militanti di ieri, vengono fatte pur sempre da dei privilegiati al fine di fregare chi non lo è, e la cosa vale anche nel caso di chi è stato eletto democraticamente.
La famiglia Shibata del film è una vera famiglia anche se nasce (scopriamo alla fine) da un delitto, anche se per sopravvivere non distingue tra mestieri decorosi e indecorosi, normali e illegali, e pratica volentieri il furto; anche se è cresciuta inglobando bambini “rubati” ad altri che li maltrattavano o li trascuravano ignobilmente. La convinzione di Koreeda è semplice: il sangue conta molto meno, molto molto meno del farsi carico della crescita concreta, fisica e morale e culturale, di un bambino; il rapporto affettivo conta molto ma molto di più di ogni certificazione legale, istituzionale.
In definitiva, a contare al disopra di ogni legge storica o naturale è la tenerezza che si instaura tra le persone. L’anarchismo di Koreeda (ma sì, parliamo di anarchismo, poiché di questo si tratta!) è meno persuaso ed estremo, mettiamo, di quello di un Luis Buñuel o di un Robert Bresson, è meno filosofico e totale, non parte da convinzioni, pur se nate dall’esperienza, metafisiche, ma da considerazioni precise sulla società attuale, sui suoi inganni, sulle sue leggi, sulle sue storture. Ha però un perno e una base che commuovono e convincono, nel frustrato bisogno di tenerezza (più che di amore! più che di sesso!) di ogni persona, un bisogno che è alla base di ogni solidarietà profonda e che soltanto chi non tiene conto delle presunte leggi di una società costituita è in grado, per Koreeda, di comprendere e soprattutto di esprimere e di coprire.
Non sono convinto che i giurati di Cannes e i critici che dicono di aver amato questo film sappiano poi riportare nella loro esperienza (e nelle proprie convinzioni politiche o anche religiose) questo messaggio. Non sono convinto che Un affare di famiglia sia un capolavoro, e che sappia arrivare fino in fondo alle sue premesse. Resta un bel film perché ha capito e ha saputo raccontare con sincerità e intelligenza i comuni “miserabili” di oggi e la loro indispensabile “arte di arrangiarsi”, ma soprattutto l’immenso bisogno di tenerezza che reagisce all’egoismo e che è tanto più forte quanto più una società isola, rende soli: un bisogno frustrato da presunte regole sociali, che appartiene a ogni persona, bambina, adulta o vecchia che sia. Come diceva il nostro Saba, “tutto il mondo ha bisogno d’amicizia”, e questo viene prima di tutto.
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