Il buco di Michelangelo Frammartino, presentato al festival di Venezia, è certamente uno dei film più estremi nella storia di un mezzo d’espressione che ha dominato il novecento, il cinematografo. Ed è un ritorno alle origini, ma può anche apparire come una sfida rivolta al futuro.
Non ha molto a che fare con il capolavoro di Becker dallo stesso titolo (del 1960, lo stesso anno dell’impresa rievocata ma anche nuovamente azzardata da Frammartino e dalla sua troupe), che era la storia di un tentativo di evasione condannato alla sconfitta, ché “il buco” scavato dai carcerati sfociava tuttavia nella città, dentro le sue leggi.
Frammartino ci ha abituato a imprese cinematografiche di estremo rigore come Il dono e lo splendido Le quattro volte, film rari e volutamente diversi, come ancor più raro e diverso è quest’ultimo, Il buco, che è a suo modo “un film storico” in quanto evoca l’impresa compiuta da un gruppo di giovani speleologi nel 1960 – tornando alla stessa grotta e spingendosi alla stessa profondità, con tensione documentaria e a suo modo epica; con la consulenza dei protagonisti di allora e la partecipazione di speleologi di oggi, e della stessa formazione e della stessa energia, della stessa ambizione.
Tradizione ed emozione
Questo film è insomma un’impresa forse unica, nella storia del cinema, controcorrente rispetto a quella del cinema documentario migliore, che ha avuto esempi altissimi da Flaherty a De Seta. È tuttavia quello di De Seta l’unico nome che vien fatto di citare, chiedendoci cosa avrebbe detto del Buco; e notando di passaggio che De Seta era calabrese e ben conosceva l’altopiano del Pollino dove sta il “buco” del film, e che Frammartino è milanese ma di genitori calabresi, e molto legato alle sue origini.
Dicevo “film storico”, rievocazione di un’impresa importante, che in questo senso può far pensare al film sul K2 e simili, documentari tradizionali e tuttavia emozionanti, perché i tentativi dell’uomo di confrontarsi con l’ignoto della natura, anzi di sfidarla, muovono sempre qualcosa nel nostro intimo, per il desiderio che è dell’uomo, nel bene e nel male, di conoscerla e dominarla.
“Film storico” perché Frammartino non manca di inserire nel film dei riscontri d’epoca, pezzi di giornale e simili, con le foto di Kennedy o della Loren o le immagini del grattacielo Pirelli in costruzione, una spinta verso l’alto a cui l’impresa degli speleologi reagisce all’incontrario, spingendosi come all’indietro, in una delle più profonde grotte del pianeta. Frammartino ha vinto la sua scommessa, portando la macchina da presa nel “buco”, giù fin quasi a centinaia di metri di profondità, assistito da un operatore geniale come Renato Berta e aiutato più tardi dal montaggio di Benni Atria, e ha compiuto qualcosa invero di straordinario e forse di unico, nella storia del cinema.
Vecchio e nuovo
La visione del Buco suscita una forte partecipazione emotiva, minuto per minuto, e una sorta di ansia ben diversa dalla tradizionale suspense. È mitigata dal contrasto con quel tanto che succede alla superficie (l’arrivo del gruppo, il paese più vicino, il piccolo accampamento, il verde della natura e i profili delle montagne) dove la bellezza del Pollino è sempre un “uscimmo a riveder le stelle” non da un aldilà infernale ma da un’estrema concretezza materica, è una natura dove la tensione si allenta, riposa.
Il regista ha creduto opportuno contrapporre al “nuovo” del gruppo, un “antico” che ha il corpo e il volto di un vecchio pastore di vacche dal volto che sembra anch’esso roccioso, un vecchio che vedremo lentamente morire. Alla sua morte in superficie, reagisce il tentativo di penetrare il ventre materno della natura? Frammartino non gioca sui simboli, per fortuna, ma resta che al gruppo di giovani che tornano al più passato che ci sia ma con una spinta che sa di futuro, contrappone un vecchio d’oltre il tempo, un uomo antico e quasi di sempre.
O almeno da quando l’uomo esiste come noi lo conosciamo, come noi ci conosciamo. A contrasto, il gruppo dei giovani penetra nel profondo della natura, come in un ventre materno prenatale, o come un ritorno al prenatale.
Non gioca sui simboli, Frammartino, ma lo stesso si finisce per chiedersi il perché di questa impresa filmica così rigorosa, il perché di questa rievocazione oggi e proprio oggi, di fronte a una nuova coscienza ecologica e a una nuova attenzione, che in parte ne consegue, per il mistero della natura e della vita; e per il loro destino. L’impressione è che egli sia stato affascinato da questa impresa senza saper molto bene dove indirizzarla, e abbia preferito, scelto, di “semplicemente” e rigorosamente ricostruirla e raccontarla e mostrarcela nella convinzione che il suo racconto potesse essere di per sé eloquente, e che ciascuno potesse trovarvi del suo, affascinato e stimolato da quel che si mostra e non da quel che si dice (in un film che è tra i più laconici che si conoscano…).
Ci si interroga sui suoi perché, su perché ha voluto farlo e l’ha fatto, e ognuno è libero di rispondere in modo diverso, personale. Ma pur sempre stupito e ammirato da un’impresa invero unica, a nostra conoscenza, nella storia del cinema, e in particolare del nostro.
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