Perché Kafka, e ancora, e sempre? Molti si sono interrogati sulla sua biografia – non straordinaria – e sul suo straordinario e forse eterno successo. Nonostante l’attuale volgarità dei tempi e una cultura di impressionante mediocrità “democratica” (quanti scrivono senza avere nulla da dire né da raccontare, ma bisognosi di “esprimersi”, di mettere in mostra la propria mediocrità, quanti li leggono per consolare la propria, di mediocrità!) si continua a leggere Kafka, e lo si considera l’autore imprescindibile per eccellenza. E ci si accosta ai suoi testi per condividere il suo stesso stupore di fronte ai fondamentali e irrisolvibili misteri dell’esistenza, ma anche di fronte alla storia e alle società che l’uomo si è dato. Per cercarvi spiegazioni e non consolazioni. E soprattutto per specchiarsi nel suo stupore, anche se ha cercato di oggettivarlo in figure che sono essenze, che sono essenziali. Che sono comuni, ma guardate a distanza.

Si è spesso abusato di Kafka – più che di qualsiasi altro scrittore del novecento, forse a parte Dostoevskij – e delle situazioni in cui i suoi protagonisti si trovano imprigionati. Un dio inaccessibile, un potere inconsulto, l’animalità del genere umano. Da Sartre a Camus, da Brecht a Welles, si è cercato di riportare questo autore sulla terra e addirittura dentro la storia (il nazismo, la guerra, il capitalismo…) o spingendo verso psicanalisi e sociologia le disavventure dei suoi personaggi niente affatto eccezionali, di fronte a situazioni insieme estreme e comuni, e infine comprensibili, abusando di metafore e paragoni. Il signor K. del Processo è servito a troppe letture, a troppi rimandi, a troppe metafore. La sua ostinata oggettività ha stimolato le più radicali delle filosofie e soprattutto delle antropologie, delle sociologie e delle banalizzazioni: “È una situazione kafkiana”, hanno detto o pensato, e continuano a dire e a pensare tanti di fronte a qualcosa di poco comprensibile, di bizzarro e anche di ansiogeno. Volendo riconoscere nello stupore di Kafka il nostro stesso stupore, di fronte al mistero della vita, all’assurdo delle società.

La scrittura di Kafka è eminentemente visiva, oggettiva, influenzata certamente dalla tradizione ebraica e dalla filosofia tedesca. E ha prodotto degli strani cortocircuiti con i francofortesi, che sono stati (soprattutto Günther Anders) i suoi più forti esegeti. Ma non può non avere risentito di certe estreme esposizioni avanguardistiche (e non è forse un caso che un personaggio di cui Brecht fece il suo alter ego si chiamasse signor K.) in sintonia peraltro con l’essenzialità dello svizzero Robert Walser, da Kafka molto apprezzato. Ma che rifiuta le sue estreme oggettivazioni.

Il fallimento geniale di Kafka
Lo scrittore praghese è la bestia nera dei romanzieri, spiega Zadie Smith. Ma alcune cose sfuggivano alla sua comprensione. Dall’archivio di Internazionale.

Kafka fu dentro il suo tempo, ma guardava oltre, a un prima e a un dopo – e a un sempre – della condizione umana oltre la storia. Anche se di storia l’uomo è impastato, dalla storia è condizionato.

Lo stupore, si è detto, di fronte all’assurdo delle regole di ogni società, ma anche lo stupore di fronte al mistero dell’esistenza, senza la fede in alcun dio. Lo stupore talvolta anche affascinato dalle luci del mondo, ma perlopiù dalle stesse inquietato, come in America, che ebbe anche il titolo Il disperso, storia infine di solitudine, non solo quella del giovane migrante. Lo stupore che ci vede come gli animali che siamo che temiamo di ridiventare, nonostante “la civiltà” (La metamorfosi). Lo stupore di essere, sentendoci molto più innocenti che colpevoli, inquisiti e condannati (Il processo). Lo stupore di vederci esclusi dal contatto con un’autorità inaccessibile e incomprensibile, un dio o un signore, in eterna attesa di entrare in un mondo forse più vero, forse più chiaro (Il castello).

La ragione di tutto, il perché e i perché, sono incomprensibili. La vita ci è data ma non ne conosciamo lo scopo e non ne scopriremo le regole più profonde, mentre quelle che ci sono imposte ci appaiono impenetrabili o ingiuste. Né più né meno che la condizione umana.

Una scrittura eminentemente visiva ci cattura e ci affascina, ma non chiede il nostro sentimento, chiede il nostro stupore: chiede che ci si interroghi sulle cose che ci sono mostrate e narrate. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Senza la certezza che ci sia un dio, e se questo dio ragioni o meno. Senza gli strumenti per ribellarsi a un’autorità incomprensibile? Una lettura “marxista” o razionalista di Kafka è forse sufficiente a ridarci tranquillità? Assolutamente no, sembra dirci Kafka, respingendoci in un’insicurezza angosciosa. O in un’insicurezza dimentica. La lotta infinita contro un’autorità che va oltre quelle visibili e tangibili, ma che è tuttavia ben concreta. Il meccanismo irrisolvibile e inesplicabile che confronta vita e legge, uomo e potere. E che tuttavia non ci esime, interrogandoci, dal prendere posizione, da una scelta e da una ribellione.

Dopo aver riletto Kafka, è bene rileggere Camus, rileggere L’uomo in rivolta.

P.S. Se Franz Kafka è lo scrittore che in tanti abbiamo così amato e interrogato, il confronto che ci piacerebbe fosse fatto è con un altro maestro del novecento, William Faulkner. Scrittore per eccellenza dei sud del mondo quanto Kafka, si potrebbe anche dire, lo è dei nord. L’autore di L’urlo e il furore ha creato un universo diverso e caldo, brulicante di vita e passione. Pone le stesse domande, nate da uno stupore simile a quello di Kafka, ma che è travolto in una vita più naturale, più animale, più sociale. E sono domande che nascono anche dalla storia. Quel che in Faulkner esplode, anche nel disordine, in Kafka è più nascosto. Il primo ci dà anche qualche risposta, mentre nel secondo troviamo solo domande.

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