Sostituite “deve” con “può”. Per esempio, modificate “i paesi che firmano questo trattato sul cambiamento climatico dovranno dichiarare di quanto taglieranno le loro emissioni di gas serra” con: “i paesi che firmano questo trattato sul cambiamento climatico potranno dichiarare di quanto taglieranno le loro emissioni di gas serra se lo desiderano, ma se non vogliono non c’è problema”.
È come la vecchia barzelletta irlandese: un viaggiatore che si è perso chiede a un passante come arrivare a Dublino. “Be’, signore”, risponde quello, “se è lì che vuole arrivare, io non partirei da qui”.
Se chiedete a chiunque sia coinvolto nei negoziati sul cambiamento climatico come fare a raggiungere un accordo globale, probabilmente riceverete la stessa risposta. “Se è lì che volete arrivare, non partirei da qui”. Ma è da qui che dobbiamo partire, che ci piaccia o no. Ed è per questo che i negoziati sono così difficili.
L’ultimo incontro preliminare per un trattato globale che possa evitare che il cambiamento climatico sfugga a ogni controllo si appena concluso a Lima, in Perù, con due giorni di ritardo. Gli ultimi due giorni sono stati usati per annacquare diverse parti del testo in modo che nessun paese abbandonasse le trattative. È a questo punto che i “deve” si sono trasformati in “può”. Così gran parte della sostanza è andata perduta ancora prima dell’inizio dei negoziati finali, previsti a Parigi per il dicembre del 2015.
Era prevedibile che succedesse. È a questo che serve la diplomazia: trovare un modo per rendere il problema un po’ meno grave persino quando un accordo che risolva davvero il problema è impossibile. Ma chi dice che un accordo è impossibile? Lo dice la storia.
C’è un accordo equo che le persone ben informate di qualsiasi paese accetterebbero, e tutti quelli coinvolti nei negoziati sul clima sanno di che si tratta. Ampie parti di questo accordo erano già sul tavolo in occasione dell’ultimo grande vertice sul clima a Copenaghen, nel 2009, ma le sue implicazioni politiche erano così vaste che molti governi sono fuggiti via. L’accordo è crollato, e abbiamo perso cinque anni.
Ecco l’unico accordo che sarebbe equo per tutti. I “vecchi paesi ricchi”, quelli che si sono industrializzati almeno un secolo fa, avrebbero dovuto ridurre in modo sostanziale le proprie emissioni di gas serra a partire da subito: diciamo un 40 per cento nel giro di dieci anni, o un 4 per cento all’anno.
È un obiettivo ambizioso ma raggiungibile, perché nella maggior parte dei paesi ricchi la domanda di energia sta già calando e molta di quella che producono va sprecata. Eliminare il primo 40 per cento non è poi così difficile, e una riduzione simile ci permetterebbe di guadagnare il tempo per trovare il modo di tagliare il resto.
Non è questa la parte dell’accordo che fa paura ai governi dei paesi sviluppati. È l’altra parte, quella in cui si dice che i paesi in via di sviluppo (gli altri sei settimi della popolazione mondiale) dovranno limitarsi a evitare che le loro emissioni aumentino nei prossimi dieci anni, senza bisogno di ridurle.
Si può chiedere a buon diritto ai paesi in via di sviluppo di contenere le emissioni, ma non si può costringerli a restare poveri. Perfino quelli più grandi, come la Cina, l’India, il Brasile o l’Indonesia, sono ancora relativamente poveri, e per offrire ai loro cittadini un tenore di vita paragonabili a quelli del mondo sviluppato dovranno continuare ad aumentare per decenni la loro produzione di energia.
Se non possono farlo costruendo altri impianti per la produzione di combustibili fossili (perché dovranno contenere le loro emissioni), dovranno farlo aumentando la produzione di energia “pulita”: eolica, solare, nucleare – qualsiasi cosa tranne il carbone, il petrolio o il gas. Queste fonti di energia “pulita” di solito sono più costose dei combustibili fossili dai quali dipendevano, perciò chi pagherà la differenza? Risposta: i paesi sviluppati.
Ecco il punto che fa crollare l’accordo. Non si può ottenere che i paesi in via di sviluppo contengano le loro emissioni di gas serra a meno che non ricevano sussidi dai paesi ricchi per costruire delle fonti di energia “pulita”. E i paesi sviluppati ritengono questa richiesta di sussidi (cento miliardi di dollari all’anno era la cifra emersa cinque anni fa a Copenaghen) scandalosa.
In realtà non è per niente scandalosa. Tenuto conto della storia delle emissioni di gas serra, è piuttosto onesta. Ma oggi quasi nessuno nei paesi sviluppati conosce quella storia.
È molto semplice. I paesi sviluppati sono ricchi perché hanno iniziato a bruciare combustibili fossili uno o due secoli fa e si sono industrializzati presto. I paesi in via di sviluppo hanno cominciato a bruciare combustibili fossili in grandi quantità solo trenta o quarant’anni fa, e stanno ancora cercando di uscire dalla povertà. Per cui l’80 per cento dei gas serra prodotti dall’uomo che si trova attualmente nell’atmosfera viene dai paesi ricchi.
I paesi ricchi hanno provocato il riscaldamento globale, i paesi in via di sviluppo l’hanno solo ereditato. Perciò la responsabilità di risolverla – e di pagare il conto – spetta in gran parte a chi l’ha provocata.
Finché l’opinione pubblica del mondo sviluppato non comprenderà che questo accordo sarebbe equo, nessuno governo nel mondo ricco si azzarderà a firmarlo. Sarebbe un suicidio politico. E finché questo accordo non sarà firmato, nessun grande paese in via di sviluppo acconsentirà a limitare le proprie emissioni.
Nel mondo in via di sviluppo, tutti quelli che contano dal punto di vista politico comprendono bene la storia delle emissioni dei gas serra. A volte viene da chiedersi se l’apparente ignoranza di questa storia da parte del mondo ricco non sia un po’ di comodo.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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