È con grande riluttanza che mi occupo del genocidio armeno, poiché so per esperienza che ciò che scrivo farà infuriare entrambi le parti. Ma questo mese ricorre il centesimo anniversario della tragedia e papa Francesco ha dichiarato che lo sterminio degli armeni commesso dall’impero ottomano nel 1915 fu in effetti un genocidio. La Turchia, come era prevedibile, ha risposto richiamando il proprio ambasciatore dal Vaticano.

Sono ormai diverse generazioni che assistiamo a questa diatriba, che di solito si limita a scambi del tipo “Sì, lo hai fatto” – “No, non l’ho fatto”. Sfortunatamente, di questa faccenda io conosco molte altre cose. Molti anni fa, quando ero un dottorando in storia e stavo facendo alcune ricerche sul ruolo della Turchia nella prima guerra mondiale, andai negli archivi dello stato maggiore turco ad Ankara e trovai i telegrammi originali (scritti nell’antico stile calligrafico riq’a) scambiati tra Istanbul e l’Anatolia orientale nella primavera del 1915.

In seguito ho esaminato i documenti britannici e russi relativi ai piani di azione congiunta con i rivoluzionari armeni nella primavera del 1915, e posso quindi dire di conoscere anche il contesto nel quale turchi e armeni si muovevano. E posso dire con una certa sicurezza che entrambe le parti si sbagliano.

C’è stato un genocidio armeno. Certo che c’è stato. Quando quasi ottocentomila membri di una singola comunità etnica e religiosa muoiono di morte violenta, di fame o di assideramento in un breve periodo, mentre sono scortati da uomini armati di etnia e religione diversa, la questione è presto chiarita. Oggi gli armeni sostengono che le vittime furono un milione e mezzo, ma è una cifra troppo alta. Quella corretta potrebbe essere anche di mezzo milione, ma ottocentomila è una stima plausibile.

D’altra parte, gli armeni vogliono assolutamente che la loro tragedia sia messa sullo stesso piano del tentativo dei nazisti di sterminare gli ebrei europei, e non si accontenteranno di niente di meno. Ma ciò che è accaduto agli armeni non è stato pianificato dal governo turco, e da parte armena effettivamente c’era stata una provocazione. Ciò non significa neanche lontanamente che sia possibile giustificare cosa è accaduto, ma mette i turchi in una posizione un po’ differente.

Nel 1908 un gruppo di ufficiali di grado inferiore chiamati giovani turchi aveva preso il controllo dell’impero ottomano, e nel novembre del 1914 il loro leader Ismail Enver era incautamente entrato nella prima guerra mondiale a fianco della Germania. L’esercito turco aveva marciato verso est per attaccare la Russia, allora alleata di Regno Unito e Francia.

Quell’armata fu annientata in mezzo alla neve vicino alla città di Kars (solo il 10 per cento dei soldati riuscì a sfuggire) e i turchi furono presi dal panico. Per un errore strategico i russi non contrattaccarono subito, ma se avessero deciso di farlo ai turchi non sarebbe rimasto quasi niente per fermarli. I turchi si sforzarono di mettere insieme una qualche forma di linea difensiva, ma alle loro spalle, nell’Anatolia orientale, c’erano dei cristiani armeni che da qualche decennio stavano lottando per l’indipendenza dall’impero ottomano.

Vari gruppi di rivoluzionari armeni avevano preso contatto con Mosca, offrendosi di provocare delle rivolte alle spalle dell’esercito turco nel momento in cui le truppe russe fossero arrivate in Anatolia. Quando ricevettero la notizia che l’esercito turco era in rotta, alcuni di loro pensarono che i russi stessero arrivando e agirono prima del tempo.

Analogamente i rivoluzionari armeni del sud, vicino alla costa mediterranea, erano in contatto con il comando britannico in Egitto e avevano promesso di scatenare un’insurrezione in coincidenza con gli sbarchi britannici previsti nella costa meridionale della Turchia, vicino ad Adana. All’ultimo momento Londra decise di spostare l’invasione molto più a ovest, a Gallipoli, ma anche in questo caso alcuni rivoluzionari armeni non ricevettero il messaggio e scatenarono comunque la ribellione.

Enver e il governo turco andarono nel panico. Se i russi fossero penetrati nell’Anatolia orientale, tutti i territori arabi dell’impero sarebbero stati tagliati fuori. Per questo ordinarono la deportazione di tutti gli armeni nell’est della Siria, attraverso le montagne, d’inverno e a piedi, dato che non c’era ancora una ferrovia. E poiché non c’erano soldati regolari disponibili, furono soprattuto le milizie curde a scortare gli armeni verso sud.

I curdi condividevano l’Anatolia orientale con gli armeni, ma i rapporti tra le due comunità non erano mai stati buoni. Molti miliziani curdi approfittarono dell’occasione per violentare, rapinare e uccidere. La mancanza di cibo e il clima fecero il resto, provocando la morte di quasi la metà dei deportati. Per quanto non sia chiaro fino a che punto il governo turco fosse informato di questa tragedia, di certo non fece nulla per fermarla.

Altri armeni morirono a causa del clima torrido e delle malattie nei campi in cui furono ammassati in Siria. Fu un genocidio commesso attraverso il panico, l’incompetenza e l’incuria deliberata, ma non può essere paragonato a quanto successe agli ebrei europei. La numerosa comunità armena di Istanbul, lontana dalle operazioni militari in Anatolia orientale, uscì dalla guerra quasi indenne.

Se solo i turchi avessero avuto il buon senso di ammettere, cinquanta o settantacinque anni fa, cosa è successo in realtà, oggi non ci sarebbero polemiche. L’unico dovere della nostra generazione è riconoscere il passato, non correggerlo. Invece abbiamo assistito a cento anni di totale negazione, ed è per questo che la questione è ancora d’attualità. E continuerà a esserlo finché i turchi non faranno finalmente i conti con il loro passato.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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