La Catalogna ha dichiarato la propria indipendenza da Madrid il 10 ottobre. La cosa è avvenuta in maniera piuttosto formale, nel parlamento regionale di Barcellona, con il presidente regionale Carles Puigdemont, i suoi ministri e alcuni capi di altri partiti che hanno firmato il documento d’indipendenza.
L’indipendenza è la “volontà del popolo”, ha dichiarato Puigdemont, riferendosi al novanta per cento dei votanti che hanno scelto il sì al referendum del 1 ottobre. Per poi invitare gli stati e le organizzazioni estere a “riconoscere la repubblica catalana come uno stato indipendente e sovrano”. Non sembrava minimamente turbato dal fatto che molte aziende stessero spostando le loro sedi fuori dalla Catalogna, né dal massiccio spiegamento di forze dell’ordine intorno a lui.
C’erano solo tre piccoli dettagli che intaccavano la felicità del momento.
Una precisa strategia
Il primo è che il presidente catalano e i suoi amici non avevano alcuna autorità costituzionale per dividere la Catalogna dalla Spagna, e neppure d’indire un referendum. La loro è una decisione unilaterale d’indipendenza, ed è molto improbabile che il governo nazionale di Madrid o quelli di altri paesi esteri ne riconoscano la legalità.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha anzi “ribadito il suo sostegno all’unità della Spagna” in una telefonata al primo ministro Mariano Rajoy. Il governo francese ha affermato che la dichiarazione d’indipendenza catalana “non sarebbe stata riconosciuta” e altri governi dell’Unione europea, dall’Irlanda a Cipro, hanno detto lo stesso. In molti di questi stati ci sono minoranze dotate di un loro movimento separatista, e non vogliono incoraggiarle.
Il secondo problema è che il referendum in Catalogna è stato un falso. Il 43 per cento di persone che hanno votato sono praticamente equivalenti al 44 per cento di persone che, secondo gli ultimi sondaggi, sono a favore dell’indipendenza. Nelle stesse inchieste, il numero di persone che dichiaravano di voler continuare a essere parte della Spagna era superiore, ovvero il 48 per cento, come risultava anche da tutti gli altri sondaggi degli ultimi anni. Ma pochissime delle persone contrarie all’indipendenza sono andate a votare al referendum.
Non si è trattato di un semplice errore di calcolo, bensì del senso profondo della strategia dei separatisti per dichiarare l’indipendenza anche se solo una minoranza della popolazione è a favore. Sapevano già, grazie a un referendum “consultivo” di due anni fa, che solo i sostenitori dell’indipendenza avrebbero votato, mentre i sostenitori di una permanenza all’interno della Spagna lo avrebbero boicottato. Anche nel precedente referendum i favorevoli all’indipendenza erano stati una schiacciante maggioranza, ma con un’affluenza altrettanto bassa.
E quindi, si sono detti, organizziamo un altro referendum ma stavolta diciamo che i risultati varranno per sempre. I separatisti voteranno sì, gli elettori anti-indipendenza si asterranno (perché Madrid dirà che è illegale e li inviterà a non votare) e così, come è successo, useremo questo finto 90 per cento di preferenze per affermare d’incarnare la “volontà del popolo” e trascinare la Catalogna fuori dalla Spagna prima che la gente capisca cosa sia davvero successo.
Se la Catalogna si separasse dalla Spagna, la regione smetterebbe di essere parte dell’Unione e dovrebbe rifare domanda d’adesione
Il che ci porta al terzo problema: se Puigdemont agirà coerentemente con la dichiarazione di martedì e farà effettivamente uscire la Catalogna dalla Spagna, si troverà in una condizione di profonda solitudine. Non solo Madrid, ma tutti i governi europei capiscono a che gioco stanno giocando i separatisti catalani.
L’Unione europea ha chiarito che se la Catalogna si separasse dalla Spagna, la regione smetterebbe di essere parte dell’Ue e dovrebbe rifare domanda d’adesione (alla quale la Spagna potrebbe opporre il suo veto anche qualora tutti gli altri paesi fossero favorevoli). La cosa ha enormi implicazioni per l’economia catalana, visto che due terzi delle sue esportazioni sono dirette verso paesi dell’Ue.
Come accaduto per il Regno Unito (che perlomeno ha organizzato un referendum inclusivo, che i partigiani dell’uscita hanno vinto con una maggioranza del 51,9 per cento), l’economia catalana entrerebbe in una fase di grave incertezza se la regione uscirà dall’Ue senza un accordo preventivamente negoziato e in grado di mantenere buona parte delle sue relazioni commerciali attualmente esistenti. E questi negoziati non possono nemmeno cominciare senza l’assenso della Spagna.
La Spagna ha una grossa responsabilità in questo caos, visto che la sua inflessibile costituzione impedisce a tutte le sue regioni di ottenere l’indipendenza (per questo motivo il referendum era illegale). L’attuale governo spagnolo ha peggiorato ulteriormente le cose spingendo la corte suprema ad annullare le concessioni di maggiore autonomia che il precedente governo aveva dato alla Catalogna.
Si può quindi capire la frustrazione provata dai separatisti catalani, ma la verità è che essi non avevano il sostegno della maggioranza per il loro progetto indipendentista, e sono quindi ricorsi a una strategia illegittima per superare questa scomoda verità. Non stupisce che Puigdemont abbia dichiarato di “sospendere gli effetti della dichiarazione d’indipendenza” per alcune settimane, al fine di permettere ulteriori negoziati col governo di Madrid.
Il governo spagnolo non negozierà sulla base dei risultati di questo referendum, e il primo ministro Rajoy ha apertamente chiesto a Puigdemont se questi ha dichiarato effettivamente l’indipendenza o meno. Se il presidente catalano dirà di sì, allora Madrid attiverà quasi certamente l’articolo 155 della costituzione, sospendendo l’autonomia della Catalogna e prendendo direttamente le redini della regione.
Da qui alle prime violenze contro l’“occupazione spagnola” non dovrebbe passare molto tempo. Quando vivi in un paese che ha conosciuto tre guerre civili negli ultimi 180 anni, servirebbe maggiore cautela.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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