È sempre il lutto la cartina di tornasole della politica: perché la politica non lo prevede, non lo elabora, non sopporta la sospensione – del giudizio, delle certezze, del conflitto – che il lutto domanda né il vuoto che spalanca. Tantomeno quando si tratta di lutti inattesi come nel caso della morte di Gianroberto Casaleggio, così precoce malgrado la lunga e nota malattia che l’ha preceduta. Morte precoce, effetto straniante: come se la scomparsa di un alieno privasse il circuito politico di un punching ball e di un alibi, costringendolo a guardarsi nel riflesso di una mancanza.
La lunga sequenza di rispettosi tributi all’innovatività, alla visionarietà, all’originalità di Casaleggio in morte, pari alle invettive contro la spericolatezza, la follia, l’autoritarismo che gli erano stati attribuiti in vita, per una volta non suona ipocrita: sembra piuttosto il segno di uno spiazzamento. Come se la scomparsa del leader dei 5 stelle rinnovasse lo spiazzamento del sistema politico di fronte alla clamorosa affermazione dei 5 stelle alle elezioni politiche del 2013. Allora, gli alieni comparivano, scompaginando gli equilibri bipolaristi ormai usurati e mandando in soffitta una seconda repubblica mai nata. Oggi, l’alieno leader scompare, togliendo a quel che resta di un sistema politico tradizionale il suo principale puntello, cioè la guerriglia avvelenata e supponente contro la minacciosa avanzata dei barbari antisistema. La morte, come diceva Totò, è una livella: ci rende tutti uguali; umanizza anche i barbari. Però, se i 5 stelle, colpiti a morte, non sono più barbari ma umani, come esorcizzarne adesso la presenza, e come contrastarne l’avanzata?
Resta lo scongiuro, che infatti ha rapidamente rimediato allo spiazzamento. Orfani del leader, i 5 stelle non ce la faranno; alla prova dell’età adulta, si divideranno attorno all’eredità; esecutori di un testamento, dovranno dimostrarsene all’altezza. Gli esami, per i 5 stelle, non finiscono mai. Eppure si sa, o si dovrebbe sapere, che nessuno può dire a un figlio come elaborare la perdita del padre, né come assumerne l’eredità. Sta a loro, e solo a loro, trovare il modo per passare la prova. E starebbe ai loro avversari cominciare a trattarli come un fenomeno politico e non più come un intruso fantascientifico.
Nel frattempo non ha torto Beppe Grillo quando dice che di Casaleggio si capirà in futuro qualcosa di più di quanto, complice la sua riservatezza, si sia capito in passato. La morte gli toglie l’aura del guru inafferrabile e gli restituisce il profilo di un interprete acuto e ambivalente di un’epoca confusa. Non regge la scotomizzazione, in voga in molti commenti, tra l’elogio all’innovatore della comunicazione politica e la critica al regista del movimento politico. Nell’epoca in cui la comunicazione è politica e viceversa, le due cose sono inseparabili e Casaleggio non è stato il primo ad averlo capito, ma è stato il primo a portare lo sfondamento del linguaggio tradizionale della politica alle sue estreme conseguenze, oltre i media novecenteschi, nella rete. L’ambivalenza del processo politico innescato è la stessa del mezzo di cui si avvale: l’orizzontalità della rete non è sinonimo di democrazia, l’equivalenza dell‘“uno vale uno” non è sinonimo di uguaglianza, il progresso tecnologico non è sinonimo di maturità o di efficacia politica, gli algoritmi non generano automaticamente soggettività e la visionarietà scientifica non è traducibile immediatamente in utopia politica. Casaleggio non ha risolto questi problemi, li ha squadernati, contribuendo a rendere improcrastinabile una crisi della politica di cui altri sanno forse approfittare meglio, ma non più limpidamente di lui. Non è solo per i 5 stelle che gli esami non finiscono mai.
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