Due giovani donne moderate e determinate, trasversali e discrete, hanno rottamato senza spocchia e senza urla il rottamatore Renzi, il suo inguaribile bullismo politico e il suo partito tutt’intero, che d’un tratto appare invecchiato d’un secolo. Il dato è tanto netto che nemmeno lo stesso Pd ha provato a offuscarlo nella nota ufficiale emessa in piena notte, anche se Renzi, attraverso i suoi giornalisti di fiducia (chiamiamoli così), fa sapere che non ha perso per un eccesso ma per un difetto di nuovismo, rottamazione e sicumera, e che dunque insisterà.

Contro ogni evidenza, perché il messaggio è omogeneo e parla chiaro. Parla Roma, dove la fine del credito al Pd passato e presente è stata più travolgente di quanto chiunque si aspettasse. Parla Torino, dove gli effetti della crisi economica e sociale sono stati più forti del riformismo à la Marchionne del partito che vide la luce – non dimentichiamolo – al Lingotto. Parla perfino Milano, dove vince (di misura) una coalizione erede del centrosinistra più che il manager dell’Expo targato Renzi. Parlano, più di tutto, i 19 ballottaggi su 20 persi dal Pd contro il M5s, nonché i comuni persi a tappeto in Toscana, culla e già tomba del renzismo, evidentemente investita dopo la vicenda di Banca Etruria da una crisi di credito non solo finanziario.

I segnali – l’avevamo scritto – c’erano già tutti dopo il primo turno di queste amministrative. Il dispositivo spietato del ballottaggio – che con l’Italicum rischiamo di duplicare alle politiche – ha fatto il resto, mescolando le carte e i voti in un fronte antirenziano spurio, ma non per questo meno denso di conseguenze. Tanto per portare ulteriore materia di riflessione sull’ossessione maggioritario-bipolare che alimenta ormai da un quarto di secolo la nevrosi politica dell’infinita transizione italiana, e che oggi cozza in modo eclatante con un sistema politico diventato (almeno) tripolare. Alla vigilia del referendum su una riforma costituzionale ed elettorale ostinatamente incardinata su quell’ossessione bisognerebbe pensarci molto, ma molto seriamente.

Ogni elezione fa storia a suo modo. Di questa si voleva da Palazzo Chigi che non facesse né storia né senso; e invece ci sono tre livelli temporali, di breve, di medio e di lungo periodo, su cui va letta e fa senso. A breve, segna una battuta d’arresto inaggirabile, se non l’inizio della fine, dell’ideologia renziana e del progetto politico di un Pd autosufficiente, a vocazione maggioritaria e a destinazione nazionale. Se un partito della Nazione c’è, è a cinque stelle, laddove il Pd si ritrova isolato e accerchiato quando affronta le urne da solo, e d’altra parte ormai privo, su scala nazionale, di quella capacità coalizionale che ha reso ancora possibile la vittoria di Milano: troppi ponti sono stati tagliati a sinistra senza che peraltro si guadagnasse nulla a destra. Si aggiunge a questo una stanchezza ormai palpabile, generalizzata, per l’infinita soap opera delle risse interne senza conseguenze, delle rese dei conti annunciate, delle rottamazioni ad personam astiose, delle radici strappate e maltrattate o, come di recente, abusate: è una soap che non fa più audience.

Sul medio periodo, il risultato elettorale presenta il conto di un quinquennio vissuto, e governato dall’alto dei Colli che contano, troppo spericolatamente. Erano state appunto le amministrative del 2011, insieme con i referendum della stessa primavera, a decretare la fine del ventennio berlusconiano e a domandare con forza un pronunciamento elettorale politico che ne celebrasse il seppellimento e ne disegnasse un’uscita da sinistra. Quel pronunciamento fu negato, all’insegna dell’unità nazionale, dell’austerity e dell’etica della penitenza, quando era invece dovuto, all’atto delle dimissioni di Berlusconi nell’autunno dello stesso anno: e di quel diniego, o di quell’atto mancato, paghiamo ancora le conseguenze. L’exploit del M5s e il fallimento del centrosinistra alle politiche del 2013 è figlio anche se non in primo luogo di quella congiuntura. La successiva incapacità di rapportarsi a quell’exploit e di capirne il senso, la pervicace ostinazione a schiacciarlo sotto l’etichetta indeterminata del “populismo” e la brillante trovata di contenerlo con il “populismo di governo” renziano hanno fatto il resto. E la strategia della cecità non è ancora finita, a giudicare dai commenti liquidatori che accompagnano oggi il risultato di De Magistris a Napoli, che oltre a essere il frutto di una pratica di governo da prendere in seria considerazione si annuncia foriero di ulteriori sorprese nel quadro politico nazionale.

Infine il lungo, anzi lunghissimo periodo. Nella maratona elettorale su La7 qualcuno ha evidenziato la coincidenza di date – 19 giugno oggi, 20 giugno allora – che lega come un filo invisibile le amministrative di oggi, disastrose per il Pd e per tutta la sinistra riconducibile alle sigle storiche, a quelle che nel 1976 segnarono al contrario la punta più alta della forza del Pci, che a sua volta incassava – bon gré mal gré - i frutti più larghi di un decennio di lotte. È una suggestione da raccogliere. Quella punta più alta fu anche l’inizio della discesa, per un partito, i suoi succedanei e i suoi satelliti, che da allora in poi, e malgrado i cambiamenti di nome e di sostanza, non ha trovato un modo non subalterno di rapportarsi all’egemonia neoliberale che dalla fine degli anni settanta domina incontrastata in occidente. Vista da questa prospettiva, la storia della sinistra italiana nel suo insieme, come pure quella dell’infinita transizione del nostro sistema politico, si ridimensiona, ma acquista al contempo un’altra luce. Gli smottamenti di quell’egemonia che oggi si presentano in Europa e negli Stati uniti sotto il segno ambiguo della contraddizione alto-basso e della rivolta antiestablishment dicono che la storia può svoltare, sta svoltando, per vie impreviste e spiazzanti ma non aliene o ostili o irriconoscibili. Forse c’è ancora un attimo di tempo per archiviare gli errori accumulati e cercare di imprimerle una direzione sensata.

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