Oprah Winfrey sale sul palco per ritirare il suo Golden Globe alla carriera, e in un attimo l’effetto noir della cerimonia di Beverly Hills, con tutte le attrici in abito rigorosamente nero in segno di lutto per i trascorsi di Hollywood scoperchiati dallo scandalo Weinstein, si trasforma in effetto black. Black/women power – insieme e tutt’e due incarnati nel corpo e nelle parole di Oprah – diventa la sigla della serata, il messaggio, tutt’altro che funereo, che le celebrities raccolgono e rilanciano dalle silence breakers e dal movimento #metoo, sotto il nuovo slogan Time’s up, “il tempo è finito”: è finito il tempo dei ricatti, delle molestie, dei silenzi, ed è già l’alba di un nuovo giorno, dichiara Oprah mentre i social la incoronano all’istante candidata prossima ventura anti-Trump alla presidenza – salvo discese in campo di Michelle Obama, s’intende.
Accade raramente che un rito non privo di creatività ma alquanto prevedibile, come sono generalmente i riti di Hollywood, si trasformi in un evento simbolico di prima grandezza. Ieri notte è avvenuto – e tanto basta perfino a consolarci della statuetta mancata a Call me by your name di Luca Guadagnino, un inno al desiderio che a sua volta fa piazza pulita della confusione fra sessualità e violenza che muove le mani dei Weinstein di turno e i deliri dei loro sodali, soprattutto italiani, ossessionati dal fantasma persecutorio di una “caccia alle streghe” castratrice. Non c’è all’orizzonte nessuna caccia alle streghe, sottintende Oprah Winfrey quando chiama a raccolta, con le donne, “quegli uomini che sono capaci di ascoltarci”. C’è invece, in atto, una di quelle miracolose congiunture in cui il passato e il presente di una storia di lotte si toccano, aprendo il presente a nuove circostanze. Era il 1982, ricorda Oprah, quando, aspettando davanti alla tv la madre che andava a fare le pulizie a casa dei ricchi, vide Sidney Poitier, primo attore nero, salire su quello stesso palco per ricevere lo stesso premio che lei, prima attrice nera, riceve oggi. Ed era il 1944 quando una giovane donna nera, Recy Taylor, fu stuprata, bendata e abbandonata sul ciglio della strada, all’uscita dalla messa, da sei uomini bianchi armati ad Aberville, in Alabama – lo stesso stato in cui poche settimane fa il #metoo ha contribuito all’elezione del senatore democratico Doug Jones contro il trumpista Moore accusato di pedofilia.
Recy Taylor non ottenne mai giustizia, malgrado l’impegno al suo fianco di Rosa Parks, ma entrambe, dice Oprah, sapevano che la loro verità avrebbe continuato a farsi strada, come lo sanno oggi le silence breakers: attrici famose e donne comuni di cui non conosceremo mai il nome, e che non lavorano a Hollywood ma nei ristoranti, nelle fabbriche, negli uffici, nelle università, nella ricerca, nelle istituzioni, nello sport e ovunque il sistema dei ricatti sessuali imperversi. “Noi attrici veniamo celebrate qui per le storie che raccontiamo, ma quest’anno tutte noi siamo la storia”, una storia che attraversa i confini culturali, razziali, geografici, politici, e che dimostra una cosa sola: che “dire la nostra verità è il mezzo più potente che abbiamo per non chiudere gli occhi davanti a corruzione e ingiustizia, carnefici e vittime, segreti e bugie”. Non perdiamoci di vista, avevano detto altre attrici, mettendo madri, sorelle e compagne di lotta al primo posto dei loro ringraziamenti per le statuette ricevute: da sole si soccombe, insieme si può.
È la sceneggiatura che Hollywood non aveva mai scritto, il film che non aveva mai previsto di dover premiare. Non è una storia di lagne vittimiste ma di coraggiose prese di parola. Non è una caccia alle streghe sessuofobica ma una sana e inarrestabile ribellione contro chi confonde sesso e potere. Non è la morte della seduzione ma semmai il suo risveglio da un lungo sonno. Il nero muove e vince: seppellito il tempo del ricatto, può cominciare quello del desiderio, quando all’altra, o all’altro, non si dice “ti possiedo” ma si fa dono di sé: “Chiamami col tuo nome, io ti chiamerò con il mio”.
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