Il nuovo romanzo di Don DeLillo appena uscito negli Stati Uniti, The silence, è la storia di un blackout tecnologico che sospende la vita di un gruppo di amici in una New York appena uscita dalla pandemia, dove il digitale è diventato ormai la seconda natura degli esseri umani. Gli schermi dei telefoni e dei computer all’improvviso si spengono, le connessioni si interrompono, nessuno può più comunicare né fare alcunché, i complottisti impazzano: sarà (di nuovo) colpa della Cina? DeLillo l’ha ambientato nel 2022 e ha finito di scriverlo un attimo prima che il lockdown della scorsa primavera costringesse lui e i newyorchesi, come tutti noi del resto, a frequentarsi solo da remoto; ma i fatti sono stati più veloci della sua profezia. La fantasia di una socialità interamente digitalizzata è già diventata realtà nel mondo stravolto dal coronavirus, e questo non è l’ultimo dei fattori a dare una tonalità apocalittica al teatro in cui si recita il dramma delle presidenziali americane. Come se una contesa politica epocale si svolgesse in primo piano mentre sullo sfondo procede un’ancor più epocale trasformazione del capitalismo che, complice il virus, fa i suoi giochi a prescindere dal potere politico, arricchendo ulteriormente i colossi delle piattaforme, precarizzando ulteriormente il lavoro della gig economy e dissolvendo nel digitale quello che nel lontano novecento chiamavamo “il sociale”.
Dalla scena in primo piano, intanto, piovono altri segnali non meno apocalittici. Da un amico di Los Angeles mi arriva via Facebook la convocazione di una mobilitazione programmata per il 4 novembre alle 4 del pomeriggio, per “proteggere i risultati” delle urne qualora Trump li rifiutasse; e già qualche giorno fa un lungo articolo pubblicato dal Guardian offriva il decalogo dettagliato di una mobilitazione preventiva per dissuadere il presidente dal tentare il colpo di stato (sic). Trump intanto è in Michigan, uno swing state decisivo dove Biden è dato in vantaggio di 8 punti, e dal palco di un comizio soffia sul fuoco negazionista e complottista attaccando i medici e il personale sanitario, rei di conteggiare più morti di covid del dovuto per lucrare, non specifica come, duemila dollari a decesso. Passano poche ore e ad Austin, in Texas, i democratici annullano un comizio dopo che un pullman di seguaci di Biden viene assalito da miliziani trumpisti. E al 3 novembre, mentre scrivo, mancano ancora due giorni.
Lo scenario peggiore
Le televisioni italiane annunciano le maratone per la notte dello spoglio, servizi e commenti sulla campagna elettorale e le sue follie non mancano, eppure è come se l’eco della drammaticità del momento che tutti i miei amici americani mi rimandano stentasse ad arrivare fin qui, o se l’entità della posta in gioco sull’altra sponda dell’oceano non riuscisse a forare l’infodemia da covid in cui siamo immersi su questa. Può darsi che alla fine il rito elettorale riesca a “normalizzare” questa tutt’altro che normale sfida per la Casa Bianca: i sondaggi danno Biden in vantaggio anche nella maggior parte degli swing state (ma in alcuni in un vantaggio inferiore al margine di errore, e poi dei sondaggi dopo il 2016 nessuno si fida più); il ricorso massiccio al voto postale e anticipato sembra giocare a favore dei democratici (ma stanno aumentando le registrazioni repubblicane per il voto ai seggi); i millennial, già decisivi nel mid term, possono esserlo anche stavolta e votano per Biden; le donne bianche della suburbia che nel 2016 votarono in maggioranza per Trump stavolta sembrano decise a tradirlo (ma tra gli uomini, bianchi e neri, è ancora forte l’identificazione nel machismo del presidente); le cosiddette minoranze etniche, se solo riusciranno a superare i mille ostacoli di cui Trump ha seminato il loro diritto di voto, sono schierate per lo più con Biden.
Eppure nessun analista, negli Stati Uniti, esclude possa verificarsi il worst scenario (lo scenario peggiore) del presidente uscente che ricorre a ogni mezzo per delegittimare il risultato, a cominciare dalla sua già annunciata contestazione del voto postale e con la complicità delle norme statali eterogenee che regolano il conteggio, dei giudici federali da lui insediati in vari stati e della corte suprema definitivamente sbilanciata a suo favore dopo la nomina di Amy Coney Barrett. In questo caso (e con buona pace del tanto decantato modello in cui “la sera del voto si sa chi ha vinto e chi governa”), si aprirebbero settimane incandescenti di riconteggi, ricorsi, sentenze, durante le quali è facile prevedere che la società americana, polarizzata com’è grazie a Trump, non starebbe a guardare. E il mondo nemmeno.
In ballo nel worst scenario, attenzione, non sarebbe infatti solo il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca, né solo il funzionamento della macchina istituzionale e costituzionale degli Stati Uniti, bensì lo scivolamento della “crisi epistemica” dilagante nella società americana in crisi di credibilità dei fondamentali della democrazia. L’appannamento del confine tra vero e falso, fattuale e opinabile, realtà e reality, caso e complotto su cui Trump ha costruito tutta la sua retorica manipolativa e tutta la sua gestione negazionista del covid-19 travolgerebbe l’ultimo baluardo della democrazia liberale, cioè l’evidenza certificabile e inappellabile del voto. E non è difficile immaginare gli effetti di una tale lesione della già compromessa reputazione della democrazia occidentale a fronte delle dimostrazioni di efficienza di forme di governo autoritarie come quella cinese e non solo cinese.
La normalità impossibile
Hanno ragione dunque Biden e i suoi sostenitori a dire che la posta in gioco delle presidenziali, stavolta, è la democrazia. Ma sbagliano quando alludono alla democrazia americana come al “faro dell’occidente” manomesso da Trump (il Financial Times di qualche giorno fa), o quando si illudono che per lasciarsi alle spalle Trump basti ritrovare la normalità di prima di Trump. Dagli assalti populisti, lo sappiamo bene in Italia dall’esperienza di Berlusconi, la democrazia non si salva tornando a com’era prima: o fa un salto di qualità o si impantana in una deriva inarrestabile verso il peggio di prima. Come e più di Berlusconi, Trump non è (stato) un’anomalia rispetto alla retta via della normalità democratica, bensì un detonatore dei suoi limiti, un rivelatore delle sue contraddizioni accumulate, un imbuto delle sue correnti corrosive sotterranee. Il che rende quello del 3 novembre un passaggio più complesso di una liberazione istantanea da un presidente eccentrico, narcisista, sociopatico e bugiardo da dimenticare prima possibile. Si tratta piuttosto – lo spiega bene Luca Celada nel suo recentissimo Autunno americano (manifesto libri) – di una triplice resa dei conti: con i quattro anni del mandato di Trump, con quarant’anni di neoliberalismo, con quattro secoli di razzismo, nonché con non si sa quanti di patriarcato. Un reckoning a scatole cinesi, dove la congiuntura politica si innesta sulle carenze strutturali del sistema: “La miscela ideale di una tempesta perfetta”, che precipita con il trumpismo ma viene da più lontano.
Gettata rapidamente la maschera del condottiero antisistema che aveva a cuore i forgotten della rust belt, Trump ha governato, da buon populista, evocando “il popolo” come entità omogenea per attizzarne di tweet in tweet ogni focolaio di divisione e di conflitto, etnico, sociale e culturale, titillando l’immaginario della guerra civile con il suo spalleggiamento dei “proud boys” contro Antifa (impressionante l’impennata della vendita di armi negli ultimi mesi). Non ha reindustrializzato il Midwest ma ha fatto gli interessi di Wall street e della upper class, sventolando fino allo scoppio della pandemia una piena occupazione fatta per lo più di precari ed essentials. Ha attaccato la radice del mito inclusivo del melting pot impiegando milizie speciali contro gli immigrati nelle “città santuario”, a supporto di una più articolata strategia amministrativa di riduzione della cittadinanza per le minoranze indesiderate. Ha vinto con lo slogan Make America great again ma dell’America ha accelerato il declino, usando il sovranismo in politica estera per isolarla dai suoi alleati tradizionali e affossare qualunque ipotesi multilateralista, in politica interna come una clava suprematista innestata sul razzismo strutturale della società americana. Infine e non ultimo, si è guadagnato l’oscar per la peggiore gestione occidentale della pandemia, trattandola non come una questione di salute pubblica ma come la posta in gioco di una guerra culturale fra libertarian no mask e criptosocialisti questuanti dell’assistenza statale.
Questo, in buona sostanza, il bilancio del mandato del presidente uscente. Ma il suo populismo non avrebbe sfondato senza il disfacimento del sociale, dello stato e della democrazia costituzionale già realizzato dal neoliberalismo, la sua gestione cinica della pandemia non sarebbe stata possibile senza il sostrato darwinista dell’etica neoliberale, il suo suprematismo non avrebbe offerto una soluzione al desiderio di revanche dei maschi bianchi desecurizzati dal declino demografico e dalla perdita di potere sull’altro sesso, senza il sostrato del razzismo di sistema che da sempre accompagna la storia americana come il rovescio oscuro del mito della frontiera, nonché come polizza assicurativa della produzione e della riproduzione capitalistica di gerarchie sociali inossidabili.
Non per caso del resto il discorso costruito in questi anni dai movimenti che sono stati la spina nel fianco del presidente – Black lives matter, il movimento a supporto di Sanders, le mobilitazioni femministe dalle Women’s march al #MeToo – non contesta solo il trumpismo degli ultimi quattro anni ma la storia ormai lunga dell’epoca neoliberale e quella ancor più lunga della conquista, della segregazione razziale e del patriarcato, pescando nello stesso immaginario politico che negli anni sessanta rese possibile la stagione più espansiva della democrazia americana. La nuova coalizione sociale che questi movimenti esprimono, all’insegna dell’intersezionalità tra classe, genere e razza, è la risposta più felice alla strategia sistematicamente divisiva con cui Trump ha polarizzato la società americana.
Il bivio postpandemico
Di questa nuova coalizione sociale non potrà fare a meno d’ora in poi nessuna politica che voglia rilanciare l’esperimento democratico americano e la valenza inclusiva che esso ha avuto nelle stagioni migliori della sua storia. Da qui passa perciò il futuro del Partito democratico, provvisoriamente tenuto insieme dalla soluzione-Biden ma impantanato non da oggi in un impossibile bilanciamento tra prospettive incomponibili, un bilanciamento divenuto impraticabile di fronte all’entità della crisi economica, sociale e politica in cui gli Stati Uniti sono stati precipitati dal combinato disposto del trumpismo e della pandemia. Come ha scritto poche settimane fa George Packer su Internazionale, ci sono crisi di una tale radicalità da richiedere svolte radicali al di là delle intenzioni dei giocatori politici in campo, e il rischio di tracollo del sistema americano oggi è tale da poter spingere perfino un centrista moderato come Biden a farsi portatore, o quantomeno traghettatore, di un nuovo New Deal. Che è quello che servirebbe per far rimbalzare anche sull’altra sponda dell’oceano, nell’estenuata sinistra europea, l’avvio di un nuovo ciclo riformista.
D’altra parte l’uscita dal trumpismo, se Trump uscirà di scena, dipende anche da quello che ne sarà del campo repubblicano dopo di lui. Esiti neofondamentalisti basati sul tradizionalismo dei valori, o neopopulisti basati sulla rappresentanza dei forgotten e dei loser bianchi, non sono da escludere (ne ha scritto sul New Yorker Nicholas Lemann), ma da quelle parti c’è anche chi non da oggi pensa a un governo delle società postdemocratiche sulla base di una miscela moderatamente autoritaria di sorveglianza tecnologica e di meritocrazia delle competenze, mutuata dai modelli orientali.
Quello che abbiamo imparato noi dal trumpismo, intanto, è che non c’è un’uscita populista – tantomeno “populista di sinistra”, come parte della sinistra radicale ha voluto credere negli Stati Uniti e in Europa – dall’epoca neoliberale: populismo e sovranismo ne sono un effetto e una continuazione, con l’aggiunta di una curvatura disciplinare che il primo neoliberalismo non aveva, o nascondeva in forme più sottili. Questa curvatura disciplinare non è classicamente autoritaria né paradigmaticamente fascista, proprio perché incorpora il lascito neoliberale di un individualismo libertario – quello dei no mask, per intenderci – incompatibile con i precedenti autoritari novecenteschi. Ma comporta dosi massicce di classismo, razzismo, xenofobia e misoginia a loro volta incompatibili con una società democratica. Il bivio perciò è netto: da una parte una radicalizzazione del progetto socialdemocratico, dall’altra una tecnocrazia allineata con il capitalismo digitale. È il bivio di fronte al quale si trova la società postpandemica, negli Stati Uniti e in tutto l’occidente.
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