La fila è ordinata. I cancelli ancora chiusi. I bagarini intorno scatenati. “Te lo do a cinquanta euro il biglietto, guarda che è un affare”. Ma la gente in fila il biglietto per il concerto a Roma di Stromae, l’ultimo del 2014, ce l’ha da mesi. Paul Van Haver (questo il vero nome di Stromae), ormai fa sold out ovunque.

Stromae durante il concerto al Mediolanum Forum di Milano, il 15 dicembre 2014. (Mairo Cinquetti, Splash News/Corbis)

Qualcuno intorno al Palalottomatica vende anche i suoi poster. Foto patinate che fanno molto anni ottanta del secolo scorso. Un commercio un po’ vintage, ormai con internet la foto te la scarichi e il poster te lo fai da te. Ma c’è chi ci prova lo stesso, ai concerti si prova di tutto, si vende al ribasso. “Un euro”, grida l’uomo dei poster, “guarda che te lo sto a regala’”.

Una coppia di israeliani è venuta da Tel Aviv per sentire il ragazzo formidable: “In Israele non è ancora venuto e allora siamo venuti noi a cercarlo”. Tra la gente che aspetta sono molti gli stranieri. Vengono da Olanda, Francia, Spagna. Ma anche da altre regioni d’Italia: Sicilia. Campania, Puglia. Tanti i giovanissimi. “Ci piace”, spiega Greta, “perché è strano. Lui non canta, lui recita le canzoni, le vive”. Margherita, che ha avuto il biglietto come regalo di compleanno, invece è affascinata dal ritmo della sua musica: “Lui ti parla di temi pesanti, come l’aids in Moules frites, ma poi ti fa ballare sopra tutta questa tristezza”.

Una madre e una figlia sono venute insieme: “Ci piace a entrambe”, spiega la donna, “è la prima volta che ci piace la stessa musica”. In fila, oltre ai giovanissimi, ci sono parecchi genitori. Alcuni lo ammettono che sono loro ad aver trascinato i figli al concerto. “Mi ricorda tanto Jacques Brel”, dice una signora con una crocchia antica che le fascia la testa. Ci sono anche trentenni e quarantenni. Qualcuno, quasi vergognandosi, sussurra al vicino: “Non ci venivo da secoli in questo posto. Mi sa che stiamo diventando vecchi”.

Intorno nessun bar, solo camionette che vendono panini dall’aria poco raccomandabile. “Ma meglio questi fuori”, dice Luisa, “dentro, il bar è anche peggio”. L’amica, che si chiama anche lei Luisa, fa un sospirone: “Fosse solo il bar. Il problema è che al Palalottomatica c’è un’acustica pessima. Ma a Roma per la musica pop non c’è spazio. O qui o l’auditorium, che però costa un botto, se no te spari”.

Una volta aperti i cancelli la gente entra ordinatamente. “Non vedo l’ora di sentire ‘sto francese”, dice un ragazzo dalla chioma riccioluta. “Ma guarda che è belga”, lo corregge l’amica. Il Belgio per molti è un mistero. Molti associano Stromae a città come Parigi, Marsiglia, al massimo Nizza. Ma Bruxelles è un concetto quasi astratto. È proprio Stromae a spiegare al pubblico, con un certo cipiglio nazionalista goliardico, che lui è belga. Ricorda in questo l’Hercule Poirot di Agatha Christie, anche lui un belga scambiato sempre per francese. Il concerto si apre con l’animazione di una fabbrica, una catena di montaggio che ricorda Tempi Moderni di Charlie Chaplin. Ed ecco che la band viene trasportata su piattaforme mobili, simili alle basi spaziali di Guerre stellari.

Poi entra in scena lui. Una figura sottile, lunga, allampanata. Sembra una piuma Stromae, ma dentro ha l’energia di un bisonte. Si comincia a ballare con Ta fête. Il pubblico si scatena. Comincia un viaggio. Ogni canzone ha la sua luce, il suo scenario, la sua interpretazione. Ed ecco che con Ave Cesaria Stromae omaggia la cantante capoverdiana Cesaria Evora ripetendo i suoi gesti, portando sul palco una bottiglia e un tavolinetto come faceva di solito lei. Per Tous les mêmes, la canzone che mette in piazza i problemi delle coppie, fa il maestro con il pubblico. Prima di cantare fa sentire il basso, il pianoforte, la batteria. Rimprovera scherzosamente i suoi musicisti, li mette al centro della scena e solo dopo canta.

È un concerto pop, ma anche una performance da biennale artistica. C’è molto teatro, guizzi da cabaret. Quando in Formidable cade a terra, mimando la resa di un uomo ubriaco e distrutto dalla vita, il pubblico quasi piange. Per poi riprendersi nell’orgia di Alors on danse. Il Palolottomatica diventa discoteca. Le luci abbagliano.

Ma è nel finale che arriva la meraviglia. “Non porterà la stanzetta sul palco ve’?”, si chiede un ragazzo asciugandosi il sudore dalla fronte. E invece la porta la sua stanzetta da bambino su quel palco. La stanza di un ragazzo che ha perso il padre nel genocidio in Ruanda. Ed ecco che per un attimo l’Europa si mischia all’Africa. Lui, Stromae, di quell’Africa che non conosce molto, porta i segni sulla pelle. Ma è più l’Europa meticcia a essere protagonista di questo concerto. Il rap si sposa con la chanson tradizionale, la disco con la morna capoverdiana, il francese colto con l’argot più ardito. Ed è forse in questo mescolarsi, a tratti schizofrenico, che l’Europa a cui apparteniamo ci sembra finalmente una realtà possibile.

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