Ogni mese spendo circa otto euro in assorbenti. Ho un flusso abbondante (per non parlare delle perdite premestruali) e i 18 pezzi di una confezione non mi bastano mai. Nella mia vita ho usato anche tamponi interni e pure quelli costano parecchio. Su ogni confezione pago come tutte l’iva – quella sui prodotti sanitari femminili – che è pari al 22 per cento. L’assorbente, il tampax o la coppetta vaginale non sono considerati beni essenziali. Non sono come il pane o un giornale, secondo lo stato italiano. Noi donne abbiamo il ciclo ogni mese, ma per il paese in cui vivo questo è un dettaglio. Come un dettaglio sono i crampi, quelle emicranie che ti staccheresti la testa a morsi, quel sangue che ti scorre tra le gambe. Un po’ come se tutto questo non fosse davvero importante per la nostra bella Italia.
Ed ecco che ogni mese ci cade addosso, direttamente sul portafoglio, quella maledetta iva al 22 per cento. Quando il leader della nuova formazione Possibile, Giuseppe Civati, ha depositato in parlamento un provvedimento per abbattere quel muro del 22 per cento ho fatto, come molte, i salti di gioia. Finalmente un provvedimento che aggiungeva le confezioni di assorbenti e in generale i prodotti igienico-sanitari tra i beni essenziali. Finalmente qualcuno, e per di più un uomo, ha pensato alle “mie cose”.
Appena l’iniziativa è stata annunciata Giuseppe Civati è stato travolto da una pioggia di sberleffi. Tanti i maschietti che hanno ironizzato sulla faccenda e molti, sempre maschietti, hanno giudicato iniquo il provvedimento.
In un tweet qualcuno si è spinto a dire:
A%20%3Ca%20href=%22https://twitter.com/civati%22%3E@civati%3C/a%3E%20!%20se%20la%20%3Ca%20href=%22https://twitter.com/hashtag/TamponTax?src=hash%22%3E#TamponTax%3C/a%3E%20%C3%A8%20la%20novit%C3%A0%20rossa%20a%20sinistra%20di%20%3Ca%20href=%22https://twitter.com/matteorenzi%22%3E@matteorenzi%3C/a%3E%20cominciamo%20male%20male.Idee%20su%20lavoro,casa,energia%20e%20tec%20ne%20abbiamo?
— Quispano (@pa5quino) 14 Gennaio 2016
Insomma in rete e fuori la tampon tax è diventata una barzelletta.
Ma barzelletta non è, cari maschietti.
Mi rivolgo a voi perché noi donne già sappiamo che le mestruazioni sono una cosa seria. Lo sanno milioni di donne in Italia, e non solo, che ogni mese vivono la fatica (e sì, anche la gioia) di sanguinare.
L’attivista, voce del femminismo statunitense, Gloria Steinem negli anni settanta non a caso aveva scritto un saggio – ancora molto attuale – dal titolo If men could menstruate (Se gli uomini avessero le mestruazioni). Steinem scrive: “Cosa accadrebbe, per esempio, se di colpo, magicamente, gli uomini avessero le mestruazioni e le donne no? La risposta è chiara: le mestruazioni diventerebbero un invidiabile evento mascolino di cui vantarsi”.
Usa molta ironia Gloria Steinem, un’ironia amara, che mostra il divario profondo tra l’universo maschile e quello femminile: ed ecco che “sorgerebbe un nuovo istituto nazionale per la dismenorrea, voluto dal congresso; e i medici farebbero poca ricerca sugli infarti, di cui gli uomini non soffrirebbero grazie agli ormoni, ma si concentrerebbero sui crampi”. Oppure “Gli uomini si saluterebbero dicendo ‘Oggi ti vedo proprio bene’ e risponderebbero ‘Ci credo, ho le mie cose!’”.
L’ultimo tabù
“Gli uomini”, scrive Steinem, “convincerebbero le donne che il sesso è più piacevole in quel periodo del mese” e “I prodotti sanitari sarebbero forniti gratuitamente dal governo: ovviamente, alcuni uomini pagherebbero per il prestigio dato da marche celebri come i Tamponi Paul Newman o gli Assorbenti Muhammad Ali e ci sarebbero prodotti ad hoc tipo Per il flusso leggero da scapoli”.
Da destra a sinistra tutti a litigarsi le mestruazioni mascoline che naturalmente si trasformerebbero non solo nella faccenda più figa dell’universo, ma, come ribadisce Gloria Steinem, in uno strumento di potere.
Invece come sappiamo il ciclo mestruale è stato – ahinoi – demonizzato a più livelli. Tra battute e prese di distanza la donna mestruata è sempre stata considerata strana, da evitare, irritabile, a volte perfino un soggetto pericoloso.
Vi ricordate Carrie di Stephen King? Lì le prime mestruazioni della ragazza creano più di uno scompiglio e un evento naturale come il menarca è associato a Satana in persona. Il mestruo non piace, è un tabù, anzi forse è l’ultimo tabù.
La donna mestruata è considerata da parecchie religioni impura, addirittura in ebraico c’è la parola niddah per definirla. Niddah è di fatto la donna che ha avuto le sue mestruazioni e non ha svolto il mikveh, ovvero il rituale di purificazione. Nel Levitico 15:19-30 è infatti detto: “Quando una donna avrà i suoi corsi e il sangue le fluirà dalla carne, la sua impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera”.
Anche nell’islam dopo le mestruazioni la donna non prega e deve fare un bagno purificatore prima di compiere le preghiere canoniche. Ricordo ancora come in Somalia, il mio paese d’origine, la donna durante il ciclo era definita nijas, impura. Mia madre mi ha detto che tra i pastori nomadi tra i quali è nata, una donna era isolata in quei giorni e allontanata dalle pratiche quotidiane. “Ti chiamavano nijas e non potevi macellare le bestie o svolgere qualsiasi attività”. E anche chi oggi non considera la donna mestruata impura (penso all’occidente in cui vivo) ci tratta comunque come un soggetto altamente infiammabile.
Un felice sanguinamento
Insomma queste benedette mestruazioni ci sono, ma il mondo tende a parlarne il meno possibile e quando ne parla lo fa sempre sottovoce. Questo tabù di fatto accomuna tutti i patriarcati, da oriente a occidente. Forse sono differenti le modalità di azione, ma la discriminazione direi che è proprio la stessa. Ancora oggi, se ci fate caso, nelle pubblicità delle più grandi marche di assorbenti il rosso mestruale è bandito. Al suo posto appare nel nostro piccolo schermo casalingo un flusso blu, quasi trasparente, che non solo nasconde, ma rimuove qualcosa che in fin dei conti è solo parte della natura di ogni donna.
In India, pochi mesi fa c’è stata una protesta di donne per ribadire che loro sanguinano ogni mese e va bene così. Sembra ovvio ribadirlo. Ma nel subcontinente indiano il mestruo è un grandissimo tabù e niente è davvero ovvio quando si parla di mestruazioni.
Tutto è nato intorno al tempio Sreedharma Sastha di Sabarimal, uno dei più conosciuti e visitati del Kerala. Prayar Gopalakrishnan che ha preso in carico la gestione del tempio ha di fatto impedito l’ingresso alle donne in età fertile, perché non sapeva bene come distinguere le pure da quelle impure, ovvero le mestruate dalle non mestruate.
Il religioso indù ha riferito ad alcuni reporter locali che avrebbe potuto farle entrare solo se avesse avuto in dotazione un dispositivo simile al metal detector manuale da passare sul ventre delle pellegrine. Naturalmente queste affermazioni hanno mandato su tutte le furie le donne indiane e soprattutto quelle del Kerala. La studente Nikita Azad (già dal nome si capisce che è una tipa combattiva) ha lanciato una campagna su Facebook #HappyToBleed alla quale hanno subito aderito migliaia di donne in tutto il subcontinente. Messaggi, cartelli e perfino assorbenti sono stati usati come vessilli per rompere il tabù e cominciare finalmente a parlare di questo loro felice e naturale sanguinamento.
Non a caso molte ong si stanno specializzando in assorbenti
Un’altra donna ha portato lo scorso agosto le mestruazioni sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Il suo nome è Kiran Gandhi, anni 26. Kiran è diventata famosa per aver corso la scorsa maratona di Londra senza tamponi interni o assorbenti. Nel suo blog ha spiegato il doppio proposito che ha animato la sua iniziativa. Il primo era quello di mostrare alle donne che non c’è niente di cui vergognarsi nel sangue mestruale. Il secondo invece puntava a richiamare l’attenzione del mondo sulla difficoltà che hanno molte donne nel comprare gli assorbenti.
Motori dell’emancipazione femminile
Ci sembra facile, quasi automatico comprare un pacco dei nostri amati assorbenti sotto casa e usarli. Ma è un gesto che non sempre è così naturale. Me ne sono accorta ad Hargheisa, nella Somalia del nord, dove ero andata per partecipare a una fiera del libro. Lì un pacco di assorbenti costava quanto uno stipendio locale (a volte anche più). Dove poi, è bene ricordarlo, sono ancora in pochi ad avere uno stipendio regolare. Molte donne, e non solo in Somalia purtroppo, non hanno accesso a questi prodotti. Un imprenditore del luogo, che aveva messo sul mercato gli assorbenti/pannolini Nune (molto famosi in tante zone del corno d’Africa) mi ha detto all’epoca che “le mestruazioni sono un grosso tabù sia in Somalia sia nel Somaliland. Da noi le ragazze rilavano e riusano lo stesso assorbente mille e mille volte con il rischio altissimo di infezioni vaginali”.
Ricordo ancora la faccia seria dell’imprenditore, un giovane della diaspora somala nato negli Stati Uniti e tornato in Africa per rendersi utile. E di fatto si è reso utile. Per impedire che le ragazze smettessero di andare a scuola a causa del ciclo (molte infatti erano costrette a non uscire dai familiari o smettevano perché la vergogna di macchiarsi era insostenibile) si è inventato insieme a una ong locale una distribuzione gratuita di assorbenti da prelevare direttamente a scuola.
Hargheisa non è un eccezione, non lo è Mogadiscio e anche molte zone dell’India sono ancora in questa condizione. E non a caso molte ong si stanno specializzando in assorbenti.
Oggi gli assorbenti ci sembrano oggetti scontati, quasi banali. Ma sono stati uno dei motori dell’emancipazione delle donne. Le donne infatti per secoli hanno usato di tutto per assorbire il sangue mestruale che colava a fiotti tra le loro cosce. Per disperazione e per necessità si è ficcato lì sotto praticamente qualsiasi cosa. Dai papiri avvolti delle antiche egiziane a tamponi fai da te fatti con fiori di cotone, foglie, carta, muschio, lana e perfino pelli animali.
Poi sono arrivate le spugnette, gli stracci da cucina e per le donne più ricche gli avanzi di tessuto. E anche la mutanda come la conosciamo oggi non esisteva. Le donne si dovevano ingegnare ogni volta a fissare in maniera creativa quelle strane cose che si mettevano tra le cosce per impedite al flusso di uscire e macchiare. Ed ecco che tra spilli, calzoncini, corde di vario genere le donne di ogni tempo si sono attrezzate ognuna come poteva. Mia madre per fortuna sua ha avuto il menarca tardi, viveva già a Mogadiscio. Ma si ricorda di donne che facevano buche per terra e stavano lì per ore accucciate come cani. Mia madre è stata fortunata perché la sorella, la zia Faduma, era ostetrica e la sua dose di assorbenti al mese la riceveva gratuitamente. Ma non per tutte era così. “Molte mie amiche semplicemente non uscivano di casa”, mi ha detto.
A volte, però, parlare troppo di mestruazioni può portare non solo alle battute di bassa lega, ma addirittura alla censura
Anche in occidente alla fin fine l’assorbente è scoperta recente. Solo durante la prima guerra mondiale alcune infermiere hanno intuito che le bende di cellulosa che usavano per le ferite dei soldati assorbivano il flusso meglio del cotone. E da lì l’industria ha seguito letteralmente il flusso. E non smette di seguirlo ancora oggi.
Da qualche anno l’ex tennista Annabel Croft ha inventato una linea di lingerie per sportive. Molti prodotti sono dedicati alle tenniste e alle cavallerizze, braghettoni enormi quasi ottocenteschi, adatti per quei giorni lì. Annabel ha infatti confessato al Guardian che il ciclo l’aveva sempre preoccupata. Quella divisa sportiva delle tenniste che più bianca non si può e quelle gonne così corte erano un vero tormento. Come fare a non macchiarle? E poi un giorno la madre si è presentata con dei mutandoni enormi come un costume da bagno anni sessanta e Annabel è riuscita a superare il suo personale trauma da ciclo indossandoli e poi creando la sua linea di lingerie Diary Doll.
Forse è nello sport che il ciclo colpisce di più le donne. Le sportive ai nostri occhi sono semidee pronte a ogni battaglia come delle moderne amazzoni, niente può spaventarle. O preoccuparle. E invece hanno il ciclo anche loro. Ogni donna che ci viene in mente, da Federica Pellegrini a Serena Williams, sanguina in quei giorni. E il ciclo, ovvero la stanchezza e la spossatezza che arrivano con le mestruazioni, colpisce pure loro. Ma in poche erano autorizzate ad ammetterlo. Almeno finché non è arrivata Heather Watson che ha candidamente ammesso in televisione che è stata tutta colpa del ciclo se ha perso gli Open d’Australia.
Evviva, qualcuna finalmente si azzardava a confessare a voce alta questo segreto di Pulcinella conosciuto dalle donne di ogni epoca.
A volte, però, parlare troppo di mestruazioni può portare non solo alle battute di bassa lega (come quelle che stanno perseguitando in queste ore il povero Giuseppe Civati), ma addirittura alla censura.
È successo a Rupi Kaur, una poeta pachistana che vive in Canada. La foto incriminata mostra Rapi Kaur sdraiata sul letto di casa e con il pantalone macchiato dal sangue mestruale. L’istantanea apparteneva a una serie di foto artistiche, Period (che l’artista ha realizzato con la sorella Prabh) ed è stata censurata per ben due volte da Instagram. Rupi Kaur si è detta meravigliata dall’eco e dal dibattito creato dal lavoro che lei e Prabh hanno messo in piedi. Non immaginava quanto il tema fosse tabù ancora anche in occidente. Chiaramente, dopo il clamore creato dagli articoli e dagli utenti inferociti per il trattamento riservato alle due sorelle, Instagram ha presentato le sue scuse e ha rimesso online la foto. Ma questo ci dice che una parità mestruale non l’abbiamo ancora ottenuta.
Io per esempio da piccola chiamavo il flusso mestruale Guglielmo, perché avevo un testo di letteratura italiana, il Guglielmino Grosser, con la copertina di un rosso acceso
Una mia amica mi ha confessato che la parola “mestruazioni” la mette a disagio. “Non la uso”, mi ha detto, “provo un po’ di vergogna”. E non è un caso isolato. Ogni donna pur di non chiamare mestruazioni le sue “cose” si è inventata dei nomignoli buffi ed evocativi per celare il misfatto.
Ed ecco che le nostre nonne dicevano “è arrivato il marchese”, perché pare che questi poveri marchesi usassero palandrane rosso fuoco come abito da cerimonia. D’altronde giubbe rosse era un altro nome dato al flusso mestruale. Io, per esempio, da piccola chiamavo il flusso mestruale Guglielmo, era tutto un “mi ha chiamato Guglielmo” o “Domani mi viene a prendere Guglielmo”. Perché avevo un testo di letteratura italiana, il Guglielmino Grosser, con la copertina di un rosso acceso. Ci vergognavamo e ci vergogniamo ancora perché la società ci ha inculcato un’idea insana di sporcizia e peccato legato a questo evento mensile.
Nessuno, di fatto, ci ha mai detto che il ciclo fa parte di noi come l’aria che respiriamo o come il battito delle nostre ciglia. Ed ecco che per anni siamo sgattaiolate furtive, come se fossimo Arsenio Lupin, per buttare nella spazzatura l’assorbente incriminato, lontano dallo sguardo dei maschi di famiglia – siano essi padri, fratelli o mariti. Insomma noi donne, cari maschietti, siamo vissute in un incubo creato dai vostri pregiudizi.
Invece di deridere Giuseppe Civati sarebbe ora che uomini e donne si mettessero insieme per superare questo stato di cose e anche per trovare una soluzione all’inquinamento di cui anche miliardi di assorbenti sono colpevoli. Cosa fare? Dalle coppette vaginali agli assorbenti biodegradabili il mondo si sta attrezzando.
Quindi smettetela di ridere e fatevi venire qualche buona idea per tener pulito insieme a noi il pianeta.
E ricordatevi che le mestruazioni sono una cosa seria.
Molto seria. Senza di loro forse non ci sarebbe la vita. Probabilmente nemmeno la vostra.
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