Hong Kong è sotto shock. Uno shock di natura mutevole, aggravato ogni giorno da qualcosa di inaspettato e inquietante. Il 21 luglio, un’ennesima manifestazione di massa – circa mezzo milione di persone in strada malgrado il calore e l’umidità, e malgrado la totale indifferenza governativa alle proteste – ha bloccato il traffico dei quartieri centrali dell’isola.
La polizia aveva cercato di limitare l’impatto della manifestazione, restringendo il percorso autorizzato ai manifestanti, e rendendo inaccessibili i palazzi governativi e legislativi, impacchettati dietro barriere di plastica piene d’acqua alte più di due metri.
Sbirciando dalle fessure si vedevano poliziotti in assetto antisommossa all’interno, che tenevano i cani con una spessa corda. “Ci manca solo che lancino i cani all’attacco”, avevo pensato vedendoli – ma a volte certi pensieri sarebbe meglio non averli proprio.
Manifestare con precauzione
Verso sera, però, una volta che si è riempita l’area autorizzata per la manifestazione nessuno si è fermato: la polizia non c’era, e tutte le arterie del lato nord si sono riempite di una folla di persone vestite di nero, silenziose, che camminavano sempre più verso ovest. Agli incroci, guardando a destra o a sinistra nelle strade parallele si vedeva solo altra folla che sfilava.
Dati i recenti arresti di giovani dimostranti, ora quelli che scendono in piazza prendono molte precauzioni. Sono vestiti di nero, e si coprono il volto con i leggeri passamontagna da trekking, o con le bandane legate dietro la nuca. Indossano grosse maschere di plastica per ripararsi gli occhi da lacrimogeni e spray al peperoncino, e si coprono gli avambracci con il cellophane sempre per difendersi dallo spray. In testa, hanno elmetti da muratore bianchi o gialli.
Sembrano versioni post-apocalittiche di guerrieri ninja. I più agguerriti si attrezzano anche con degli scudi di fortuna: coperchi dei bidoni di plastica, tenuti per la maniglia, o pezzi di cartone. Altri, malgrado il caldo, si proteggono con i poncho di plastica solitamente utilizzati per i giorni più pesanti dei monsoni estivi. In fondo, quello che sta scuotendo Hong Kong è a tutti gli effetti un tifone.
Le autorità di Hong Kong e quelle di Pechino hanno già dimostrato di essere più interessate alla retorica patriottica che al malcontento popolare
Così, vista l’assenza di polizia, i manifestanti hanno continuato a camminare tranquilli, coperti e silenziosi, ignorando gli uffici governativi impacchettati e arrivando davanti all’ufficio di rappresentanza di Pechino, preso di mira per la prima volta. Ed è stato coperto di graffiti, mentre l’emblema nazionale è stato sfregiato.
Alcune delle scritte, in modo quasi pedante, ricordavano alle autorità centrali la formula con cui Hong Kong dovrebbe essere governata: un paese due sistemi. Ma si poteva anche leggere “Fuck Cheena”, usando l’epiteto offensivo rivolto alla Cina ai tempi dell’invasione giapponese. Un affronto multiplo, teso a illustrare quanto poco rispetto susciti la Cina continentale tra i manifestanti di Hong Kong.
È stato un gesto ardito. Le autorità di Hong Kong, come quelle di Pechino, hanno già dimostrato di essere più interessate alla retorica patriottica e ai simboli della sovranità – emblemi, bandiere, inni – che al malcontento popolare e, come previsto, dopo poco hanno cominciato a fioccare condanne per il gesto traditore. La polizia alla fine è apparsa, e ha cominciato a sparare lacrimogeni e a manganellare. Ormai, è quasi normale.
L’impensabile è accaduto
Intanto, a Yuen Long, nella penisola di Kowloon attaccata alla Cina continentale, stava avvenendo qualcosa di impensabile. Centinaia di uomini, armati di bastoni di bambù e spranghe metalliche, si sono riversati nella stazione della metropolitana per picchiare indiscriminatamente i passeggeri, preferibilmente quelli vestiti di nero, forse di ritorno dalla manifestazione – ma ci sono andati di mezzo tutti, anche quelli con i vestiti a fantasia.
La polizia è intervenuta solo dopo 40 minuti, quando ormai 46 persone erano state portate in ospedale. Gli unici ad aver risposto alle telefonate angosciate dei passeggeri sono stati i vigili del fuoco, cementando così la sfiducia della popolazione nei confronti della polizia, ora accusata non solo di brutalità, ma anche di connivenza con le triadi, i gruppi del crimine organizzato attivi a Hong Kong e in Cina.
Di nuovo, amici e conoscenti si scambiano messaggi d’angoscia, che cercano le parole per esprimere il trauma collettivo che sta vivendo Hong Kong. La sera del 23 luglio è stato confermato il quinto suicidio per ragioni politiche: un ragazzo di 17 anni, messo fuori di casa dai genitori arrabbiati con lui per aver partecipato alle proteste, si è gettato dall’ultimo piano del palazzo. Per questo si seguono con attenzione gli aggiornamenti su Facebook degli amici, bersagliando di messaggi di affetto e solidarietà chi dice di non farcela più, di odiare la vita, di odiare le autorità indifferenti, e di rimpiangere di essere nato.
Rifiuto del dialogo
Ma lo stallo rimane immutato. Come se il caos e l’immobilità potessero convivere. Il governo, dopo aver sospeso (ma non ufficialmente ritirato) la proposta di legge per autorizzare l’estradizione dei criminali verso la Cina, che ha innsecato le proteste, continua solo a condannare i manifestanti, e per il resto rifiuta ogni forma di dialogo.
Lo sfregio degli emblemi nazionali è stato subito denunciato con sdegno ma solo dopo diverso tempo ci si ricorda di esprimere un po’ di cordoglio per chi è stato malmenato dagli squadristi in metropolitana. Di tutto questo non si vede una fine, o una soluzione. Il calendario delle manifestazioni, però, continua a essere fitto, e creativo: il 24 luglio, in piena ora di punta, una protesta in diverse stazioni ha bloccato alcuni treni della metropolitana, per criticare la mancanza di assistenza offerta dal personale della stazione a Yuen Long.
Ma poche ore dopo, da Pechino, è stato detto che le truppe dell’Esercito di liberazione del popolo di stanza a Hong Kong possono intervenire per riportare ordine nell’isola, se le autorità locali lo dovessero richiedere.
Si tratta, probabilmente, di una frase detta solo per spaventare, e far smettere le manifestazioni, ma a trent’anni dal massacro di Tiananmen fa davvero rabbrividire. Come se Pechino ribadisse che, allora come oggi, il suo unico modo per risolvere i conflitti è la violenza, e non il dialogo.
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