Immaginiamo. La Germania e la Finlandia sono furiose: i loro partner dell’eurozona sono passati sopra le loro obiezioni per giungere a un accordo con la Grecia dopo la vittoria del no al referendum. Preoccupata di mantenere il paese nella moneta unica, una larga maggioranza dell’eurogruppo (i 19 ministri delle finanze) ha sospeso la richiesta alla Grecia di riformare le pensioni, il che lascia presagire nuove sbandate del bilancio, e ha accettato una ristrutturazione immediata della parte di debito in mano ai paesi dell’eurozona.

Wolfgang Schäuble, il ministro delle finanze tedesco, e Alexander Stubb, il suo collega finlandese, sanno che la loro maggioranza parlamentare non sarà d’accordo. Alla vigilia di un vertice dell’eurozona convocato per ratificare questo accordo, i governi tedesco e finlandese decidono di indire per la settimana successiva un referendum con un semplice quesito: “Accettate di rinunciare a una parte dei prestiti che la Germania/la Finlandia hanno accordato alla Grecia?”. Sul risultato non ci sono molti dubbi: sarà nein/ei. E si torna al punto di partenza.

Questo piccolo esercizio di fantapolitica illustra il vicolo cieco in cui la Grecia ha condotto la zona euro decidendo di organizzare un referendum limitato ai suoi cittadini su una questione – quella delle condizioni a cui sono sottoposti gli aiuti finanziari dei suoi partner – che non riguarda solo loro. Se ogni governo si mettesse a usare i suoi cittadini contro quelli degli altri, la sopravvivenza della moneta unica sarebbe a rischio: la Francia potrebbe organizzare un referendum sul rispetto del limite del 3 per cento del pil al deficit pubblico (risposta assicurata), i paesi ricchi uno sulle misure di solidarietà finanziaria (risposta assicurata), i paesi poveri sull’introduzione di trasferimenti finanziari obbligatori (risposta assicurata). Come si potrebbe rimettere il coperchio a un simile vaso di Pandora?

Nel 2010, quando è scoppiata la crisi greca, gli europei hanno scoperto quello che avevano voluto dimenticare nel 1992 alla firma del trattato di Maastricht: la moneta unica non era che il primo passo verso una federazione politica, condizione imprescindibile per assicurare la sua sostenibilità a lungo termine. All’epoca le condizioni politiche non permettevano di spingersi più in là. Fu quindi stabilito che ogni stato avrebbe gestito la sua economia e il suo bilancio nel rispetto di una serie di regole comuni (il Patto di stabilità).

Siamo ancora lontani da una vera unione politica. L’eurozona è “un pane cotto a metà”, sottolinea Romano Prodi

Con il passaggio alla moneta unica nel 1999, lo “shock federale” previsto da Hubert Védrine, ex consigliere di François Mitterrand, non si è verificato. Pensando che la zona euro sarebbe diventata di fatto gli Stati Uniti d’Europa, i mercati hanno prestato a tutti i suoi componenti alle stesse condizioni della Germania. Dato che tutto andava bene, perché andare più lontano con l’integrazione? Ci sono volute la crisi finanziaria del 2007-2008 e la scoperta dei conti truccati della Grecia, che aveva dichiarato solo un terzo del suo deficit reale, perché i mercati andassero nel panico e smettessero di concedere prestiti ai paesi più fragili.

A quel punto l’eurozona si è accorta di essere “una casa costruita a metà”, come afferma il rapporto “Completare l’unione economica e monetaria dell’Europa” presentato dai presidenti delle istituzioni comunitarie al Consiglio europeo che si è svolto a giugno: “Quando la tempesta l’ha investita, i suoi muri e il suo tetto hanno dovuto essere rinforzati rapidamente”. In meno di due anni, gli stati hanno creato in fretta e furia gli strumenti necessari per aiutare i paesi attaccati dalla speculazione.

Dai prestiti bilaterali si è passati al Fondo europeo di stabilità finanziaria e poi al Meccanismo europeo di stabilità, dotato di una capacità di prestito di 750 miliardi di euro. La zona euro ha rafforzato la sua governance economica dotandosi dei mezzi per costringere gli stati a rispettare la disciplina comune, il che prevede una maggiore ingerenza nelle politiche nazionali. Infine, la sorveglianza sulle banche è stata affidata alla Bce, dato che le autorità nazionali avevano la tendenza a nascondere la verità sulla situazione del loro sistema bancario.

A dispetto di tutti questi progressi, siamo ancora lontani da una vera unione politica. L’eurozona è “un pane cotto a metà”, sottolinea Romano Prodi, presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004: “Se l’Europa vuole uscirne, deve reagire immediatamente dotandosi di un’autentica autorità federale”. È questo il senso del rapporto dei “cinque presidenti” (Commissione, Parlamento, Consiglio europeo, eurogruppo, Bce) che propone di completare l’unione monetaria: controllo democratico della Commissione e dell’eurogruppo esercitato da un parlamento della zona euro, rafforzamento della sorveglianza sulle economie e i bilanci nazionali, creazione di un bilancio dell’eurozona per “attenuare gli shock macroeconomici”, e infine di un “tesoro europeo”. Secondo Prodi questa federalizzazione, che significherebbe mettere sotto tutela le politiche economiche nazionali, è il solo modo di uscire da una situazione in cui l’eurozona è governata da stati “ostaggio dei loro problemi politici interni”, come dimostra la Grecia.

Una medicina amara

Ma ci si può chiedere se l’eurozona non sbagli strada a intromettersi sempre di più negli affari interni dei paesi che ne fanno parte. Perché questo schema non impedirebbe che uno stato scontento di questa o quella misura ricorra a un referendum come quello greco. Secondo Daniel Cohn-Bendit, ex presidente del gruppo dei Verdi al parlamento europeo, “negli Stati Uniti c’è un bilancio federale che finanzia le spese federali (esercito, polizia, ricerca, investimenti eccetera). Gli stati federali mantengono il controllo del loro bilancio, senza ingerenza federale. E se la California rischia di fallire, le autorità federali non intervengono: deve cavarsela da sola”. Perché non imitare questo modello?

Le spese e i bilanci degli stati continuerebbero a essere votati dai parlamenti nazionali, cosa che provocherebbe naturalmente tensioni tra gli stati e le autorità federali incaricate di costringere i bilanci nazionali alla convergenza. Tuttavia ognuno dei due livelli dovrebbe gestire i suoi affari.

Nel caso della Grecia, una federazione sul modello statunitense avrebbe lasciato che il paese dichiarasse l’insolvenza, la zona euro si sarebbe limitata ad aiutare la popolazione (grazie al bilancio federale) e l’unione bancaria avrebbe evitato le ricadute sistemiche del fallimento delle banche greche. La medicina sarebbe stata ancora più amara per i greci (per equilibrare il bilancio si sarebbero dovuti tagliare dall’oggi al domani 36 miliardi di euro di spese su 84), ma nessuno avrebbe potuto rivolgere accuse all’Europa. L’unico referendum che un governo alle corde avrebbe potuto organizzare sarebbe stato un referendum sulla secessione.

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