“Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale”. Berlusconi, 1994.

“Niente primarie, è lui il detentore del titolo”. Angelino Alfano, 2012.

Il linguaggio del calcio è universale, internazionale, totalizzante. Si può parlare di calcio con tutti, in qualsiasi paese del mondo, subito. Ventisei milioni di italiani si dichiarano tifosi di una squadra, e due terzi degli italiani sono “interessati” al calcio. Settecento milioni di persone hanno assistito alla finale dei Mondiali del 2010. Inoltre, come ha scritto Tito Boeri, “il calcio catalizza una delle risorse più scarse che ci siano al mondo, vale a dire l’attenzione umana”.

Silvio Berlusconi lo ha sempre capito. Ha comprato il Milan nel 1986 e lo ha trasformato in una macchina da vittoria. Nel frattempo ha rivoluzionato il calcio stesso, con Arrigo Sacchi e il pressing che hanno fatto sparire il caro, vecchio libero. Alla fine degli anni ottanta tutti o quasi tutti giocavano con il libero. Ora il libero e una figura storica, che si vede solo nei filmati e nei musei.

Berlusconi non è stato il primo a capire il potere universale del calcio. Prima di lui ce ne sono stati altri: Mussolini, Franco in Spagna, Lauro a Napoli (che usava lo slogan “Un grande Napoli per una grande Napoli”), la Fiat e gli Agnelli, Rizzoli. Ma lui ha portato il calcio verso un’epoca neo-televisiva, dove lo sport è mischiato con la pubblicità, il culto della celebrità, il sesso, il gossip e il gusto della polemica. Con Berlusconi c’è stata una perfetta intesa tra calcio, politica e mezzi d’informazione.

L’Italia si è “footballizzata”. È cambiato il linguaggio (Forza Italia, club, pressing, squadra, la discesa in campo) e e le chiacchiere sportive si sono mescolate al discorso politico. In un paese in cui la politica in senso stretto conta sempre meno, e il calcio conta sempre di più per l’identità delle persone e la loro identificazione socialculturale, questo discorso è diventato sempre più centrale. Non possiamo farne a meno. Il discorso calcistico ha invaso tutto, in ogni campo.

Il Cavaliere ama dimostrare il suo potere, sempre. E quindi chiama in diretta le trasmissioni, sta in tribuna d’onore (il vero luogo di potere nella seconda repubblica), va nello spogliatoio, alza la coppa, inventa il Trofeo Berlusconi. Spende soldi. Un sacco di soldi. Ma l’investimento vale sempre la pena.

Con il calcio Berlusconi costruisce la sua personalità pubblica, come un uomo “condannato a vincere”. È l’uomo dei miracoli, delle cinque coppe dei campioni. E in questo campo lui si auto-celebra molto spesso: “Quando divenni presidente del Milan dissi che la volevo rendere la prima squadra del mondo. Nessuno ci credeva ma è successo”. È un’immagine vincente, spettacolare, appoggiata da una schiera di giornalisti, ex giocatori, showgirl, urlatori di professione (Mughini, Crudeli, Mosca) e altri politici. Quando vince, è tutto merito di Berlusconi, ma quando perde scarica la responsabilità sugli altri (arbitri, tecnici, giocatori).

Con una conferenza stampa riesce persino a mandare via il tecnico della nazionale. Molti cercano di imitarlo (Cecchi Gori, Guacci, Tanzi, Cellino, Zamparini, Cragnotti) ma nessuno si riesce. E quando scende in campo per la sesta campagna elettorale, nel 2012, per annunciarlo sceglie Milanello. E La Russa dice: “L’alternativa di candidare il segretario non c’è, il capitano della squadra è Berlusconi”. Siamo in una calciocrazia, viviamo in Footitaly.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it