Mentre i manifestanti di Hong Kong, reduci da un fine settimana che ha segnato il picco delle violenze nei due mesi di occupazione, cercano di capire che direzione dare alla protesta (i tre fondatori di Occupy central si sono arresi stamattina invitando i dimostranti a fare lo stesso, ma nel frattempo il leader degli studenti Joshua Wong ha cominciato lo sciopero della fame), da un’altra periferia cinese è partito forte e chiaro un segnale diretto a Pechino.
Taiwan, l’isola che la Cina reclama come sua provincia ma che di fatto non controlla dal 1949, è alle prese con gli effetti di un terremoto elettorale che il 30 novembre ha portato alle dimissioni del primo ministro nazionalista Jiang Yi-huah, seguito due giorni dopo dal governo in blocco e dal presidente Ma Ying-jeou, che oggi ha lasciato l’incarico di segretario del Kuomintang.
Il governo guidato dal partito di Ma paga le conseguenze di una politica sempre più aperta nei confronti di Pechino, percepita con inquietudine dagli elettori andati alle urne per le amministrative numericamente più importanti della storia dell’isola: 18 milioni di votanti chiamati a scegliere tra 20mila candidati per più di undicimila cariche.
Tra le quali quella di sindaco di Taipei, strappata al Kuomintang dall’opposizione per la prima volta in sedici anni. Oltre alla capitale, il partito di Ma ha perso altre sei municipalità.
Una disfatta anticipata dalla rivolta dei girasoli di nove mesi fa – quando circa 500mila manifestanti, per lo più studenti, hanno occupato il parlamento per far saltare una parte degli accordi economici tra Pechino e Taipei e, soprattutto, per mettere in chiaro che l’avvicinamento alla Cina non era gradito – e che potrebbe preludere a un cambiamento di direzione nel paese in occasione delle presidenziali del 2016.
Di certo alle urne ha pesato anche la situazione a Hong Kong, dove finora alle richieste di democrazia dei manifestanti Pechino ha risposto con il silenzio, e il governo della città mantenendo il punto senza cedere di un millimetro. Agli occhi dei taiwanesi un esempio di cosa rischierebbero se la dipendenza economica dalla Cina aumentasse tanto da permetterle di fagocitare l’isola e instaurare anche lì il modello “un paese, due sistemi”.
Intanto a Hong Kong la tensione sale e il risultato elettorale a Taiwan rischia di essere l’unico effetto concreto, anche se indiretto e poco consolatorio, che il movimento degli ombrelli riuscirà a ottenere.
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