Esistono quattro tipi di emergenze umanitarie: quelle create da fenomeni ambientali come i terremoti, gli uragani e le inondazioni; quelle provocate dagli esseri umani come le guerre; quelle che derivano da una combinazione di fattori umani e naturali, come la crisi climatica; e infine le emergenze sanitarie come le pandemie. In passato gli architetti e gli urbanisti hanno sempre pensato di non avere un ruolo di primo piano nelle emergenze sanitarie. Fatta eccezione per la progettazione delle strutture sanitarie, queste crisi sono state considerate di competenza esclusiva del sistema sanitario.
Oggi, mentre il mondo è travolto dalla pandemia di covid-19, architetti e urbanisti sono costretti a riconsiderare questo assunto e a contribuire agli sforzi collettivi per arginare i danni e guidare il processo di ricostruzione. È evidente che le nostre città, i nostri spazi e i nostri stili di vita dovranno cambiare. In questo contesto l’obiettivo finale dev’essere quello di migliorare la resilienza della nostra società e la capacità di prepararsi alla prossima emergenza.
Le pandemie sono fenomeni che vanno contro l’urbanizzazione, contro la democrazia, contro la socialità e contro la globalizzazione. Spingono gli esseri umani a reprimere i loro istinti per sopravvivere e proteggere le loro comunità. L’esperienza collettiva globale che stiamo vivendo arriva perfino ad alterare l’ordine neoliberista dominante. Se da un lato la pandemia potrebbe renderci ancora più dipendenti dalle tecnologie, dall’altro rischia di invertire la tendenza verso l’urbanizzazione.
Libertà e protezione
Inoltre la crisi sanitaria rischia di ridurre ulteriormente, e forse cancellare, i legami interpersonali tradizionali, mentre l’esistenza umana si allontana progressivamente dal mondo fisico per concentrarsi sempre di più su quello virtuale. L’umanità sopravviverà senz’altro alla pandemia di covid-19, ma non è detto che in futuro manterremo lo stile di vita che avevamo prima.
In questo momento i punti di forza e le debolezze di ogni sistema politico e sociale sono evidenti. La pandemia sfida i princìpi di una società libera e aperta e mette in discussione i fondamenti del sistema occidentale. Il mondo è costretto a valutare la possibilità che i regimi autoritari siano meglio attrezzati delle democrazie tradizionali per reagire a una situazione del genere.
In questo contesto architetti e urbanisti dovrebbero riflettere sul modo in cui le città e gli spazi possono proteggere la libertà e i valori democratici e al tempo stesso creare una società più resiliente e preparata per le minacce future. Dovrebbero trovare il modo di ripensare le città per proteggerne meglio gli abitanti, e magari chiedersi se valga la pena abbandonare il modello dell’urbanizzazione estrema per tornare a un’organizzazione sociale più decentrata, che tra le altre cose potrebbe dare una risposta al problema di una popolazione mondiale in rapida crescita.
Nel trecento la peste nera costrinse ad alterare radicalmente molti aspetti della vita quotidiana
Quella che stiamo vivendo non è la prima pandemia nella storia dell’umanità e non sarà l’ultima. In tutte le crisi sanitarie di questo tipo la componente spaziale è fondamentale. Il legame tra il mondo fisico e la trasmissione delle malattie era noto già nel 400 a.C., quando Ippocrate suggerì che gli spazi non salubri potessero favorire la diffusione di una malattia, proponendo come soluzione l’allontanamento dai contesti affollati.
Oggi sappiamo che ben prima dell’epoca di Ippocrate le epidemie erano legate al modo in cui gli esseri umani occupavano lo spazio. Si pensa, per esempio, che il vaiolo si sia inizialmente diffuso quando gli uomini cominciarono ad addomesticare gli animali. Lo dimostra il fatto che le tracce del vaiolo sono state trovate nelle mummie dell’antico Egitto.
Nel trecento la peste nera causò la morte di circa un terzo della popolazione europea, alterando radicalmente molti aspetti della vita quotidiana. Fu necessario cambiare la natura del lavoro per concentrarsi sui prodotti indispensabili. In agricoltura fu data la priorità alle colture più importanti e affidabili. I monasteri entrarono a far parte del sistema di cure, trasformandosi in strutture di assistenza durante l’emergenza. Perfino il concetto di “quarantena”, che contiene elementi sia spaziali sia temporali, è nato in quel periodo. Per arginare la diffusione della peste, infatti, le autorità veneziane imposero alle navi di restare attraccate lontano dalla città per un periodo di quaranta giorni.
In epoca coloniale la diffusione delle malattie è stata facilitata dal contatto ravvicinato tra gli indigeni delle Americhe e i conquistatori e coloni europei. Poi, durante la rivoluzione industriale, la mancanza di sistemi fognari in città sovrappopolate favorì la diffusione del colera. Inizialmente si pensò che i focolai fossero il risultato della contaminazione dell’aria, e di conseguenza gli urbanisti europei proposero diverse misure per limitare l’esposizione alle possibili fonti di contagio come ospedali e cimiteri, spostandoli alla periferia delle città.
Nella Londra degli anni cinquanta dell’ottocento, dopo un’epidemia particolarmente violenta, le prove scientifiche dimostrarono che la causa delle malattie non era l’aria ma l’acqua stagnante. Così si cominciò a fare più attenzione allo sviluppo di infrastrutture fognarie, e di conseguenza gli urbanisti cominciarono a progettare strade più larghe per facilitare l’installazione di condotti fognari. Le nostre città diventarono più pulite, sane e sicure.
Nello stesso periodo preoccupazioni simili a quelle delle autorità londinesi spinsero l’architetto Frederick Law Olmsted, ex ufficiale sanitario durante la guerra civile americana, a proporre la costruzione di un grande parco nel centro di New York, chiamato Central park. Olmsted credeva che uno spazio verde fosse indispensabile per rendere la città più salubre per gli abitanti. L’importanza del parco newyorchese nel contesto della pandemia attuale dimostra che le sue intuizioni erano giuste.
Città elastica
Nell’architettura moderna c’è molta attenzione verso la pulizia degli spazi, in senso sia estetico sia materiale. Il risultato è l’avvicinamento a uno stile minimalista fatto di spazi vuoti e materiali che possono essere facilmente puliti o sostituiti. Alcuni architetti si sono spinti fino a considerare gli edifici come una sorta di cura. Negli anni sessanta e settanta i temi legati al controllo delle malattie e all’igiene sono stati fondamentali nelle riforme del settore degli alloggi pubblici in tutta Europa. Ancora oggi, però, esistono molti luoghi – come gli insediamenti informali e i contesti urbani sovraffollati – dove la mancanza di risorse e pianificazione adeguata crea un ambiente ideale per la diffusione dei virus e altri patogeni.
Emerge la necessità di progettare edifici più “sani” per proteggere i residenti dalle malattie attraverso la selezione dei materiali, la disposizione dello spazio e i sistemi di riscaldamento, condizionamento e ventilazione. Gli spazi pubblici, sia esterni sia interni, devono essere ripensati per contrastare la propagazione di virus come il Sars-cov-2, agevolando il distanziamento fisico senza la necessità di imporre limitazioni estreme. In generale la società dovrebbe trovare il modo migliore per proteggere le persone più vulnerabili durante emergenze come quella attuale, a cominciare dagli anziani, dalle persone con patologie pregresse e dai senzatetto.
Su scala urbana si potrebbe sviluppare una struttura che possa essere rapidamente suddivisa in blocchi che, pur mantenendo una forte dipendenza dalle reti comunicative globali, possano funzionare in modo autosufficiente. Questo permetterebbe di avere zone non contaminate nelle immediate vicinanze di focolai. Ogni blocco potrebbe essere isolato, permettendo alle persone che ci vivono di condurre una vita normale.
Si potrebbe immaginare una sorta di “città elastica”, più adatta ad affrontare fenomeni estremi come le pandemie. Sistemi che potrebbero garantire l’accesso a tutti nei momenti di pace e prosperità, per poi chiudersi e frammentarsi in blocchi indipendenti durante epidemie o conflitti. Il concetto di città elastica fa riferimento alla contrazione e all’espansione dello spazio, ma suggerisce anche una flessibilità tra la vicinanza e il distanziamento per rispondere a condizioni diverse.
Inoltre si potrebbe pensare una forma di “urbanizzazione distribuita”, in cui la città verrebbe condivisa tra gli abitanti non solo in base a esigenze di spazio ma anche di tempo. Alcune aree urbane potrebbero essere accessibili per un numero ridotto di persone in momenti diversi della giornata, della settimana o del mese. Questo approccio potrebbe ridurre alcuni dei problemi quotidiani creati dalla densità urbana, come il traffico, la congestione dei mezzi di trasporto pubblici e la desertificazione delle zone commerciali durante la notte o nei fine settimana.
I balconi, i tetti, le scalinate, i cortili e altri spazi semipubblici hanno assunto un nuovo ruolo nelle vite degli abitanti delle città
Un altro modo per ripensare la città potrebbe essere studiare la quantità di spazi vuoti nelle diverse ore del giorno e ridistribuirli in modo più efficiente. In un contesto di crisi si potrebbe sfruttare il fatto che le normali necessità di spazio sono stravolte. Un esempio: con il turismo sostanzialmente fermo, gli alberghi e le navi da crociera potrebbero essere riconvertiti in ospedali o centri di accoglienza. I ristoranti potrebbero diventare mense per le persone in difficoltà.
Visto che molti smetteranno di andare in ufficio per lavorare da casa, quegli spazi vuoti potrebbero essere riassegnati. Oltre a migliorare la risposta a un’eventuale emergenza, un uso più efficiente dello spazio avrebbe un impatto positivo a livello sia ambientale sia economico. Una strategia simile impone un approccio più flessibile alla pianificazione e alla proprietà dello spazio, ma allo stesso tempo offre possibilità illimitate.
Oggi, mentre buona parte della società pratica quotidianamente varie forme di distanziamento, la quantità di tempo che passiamo in casa aumenta. Questo cambiamento ha rafforzato il desiderio di una vita all’aria aperta. È un bisogno assolutamente naturale, che però in queste settimane ha creato dei problemi, soprattutto nelle città densamente popolate dove gli spazi verdi sono pochi. Per evitare il sovraffollamento dei parchi, delle aree-gioco e delle spiagge, molti governi hanno limitato l’accesso a questi spazi o li hanno chiusi.
L’urbanizzazione distribuita può rappresentare una soluzione a questo problema, con una condivisione coordinata dei parchi, delle piazze e dei giardini in base a fasce orarie. Un’altra opzione, già sperimentata in alcune città, prevede la chiusura di determinate aree al traffico automobilistico, una soluzione praticabile in un momento in cui le strade sono più libere. Alcune città, come Parigi e Milano, stanno pensando di mantenere alcune misure adottate di recente – come la chiusura delle strade e l’ampliamento delle piste ciclabili – anche dopo la fine dell’emergenza attuale.
Allo stesso modo i balconi, i tetti, le scalinate, i cortili e altri spazi semipubblici hanno assunto un nuovo ruolo nella vita degli abitanti delle città. Si tratta di luoghi che in circostanze normali sono trascurati, ma che durante la pandemia sono stati fondamentali per allargare i confini della vita domestica e per mantenere i rapporti sociali rispettando le distanze.
Il problema è che oggi non tutti possono accedere a spazi di questo tipo. Per questo motivo in futuro bisognerà garantire la presenza di tetti verdi, terrazze e cortili in tutti gli edifici residenziali, in modo da offrire uno spazio naturale protetto e distribuito. Questo permetterebbe di espandere gli spazi disponibili per le famiglie costrette a condividere ambienti affollati, riducendo il peso psicologico dell’isolamento e le ansie dovute alla crisi. Diventerebbero una sorta di spazio pubblico collettivo durante un’emergenza.
L’umanità è al centro di un esperimento sociale di portata inimmaginabile. Forse in questo momento stiamo intravedendo uno scampolo di futuro che non potremo mai dimenticare. Resta da capire se saremo capaci di imparare da ciò che stiamo vivendo e soprattutto se è davvero questo il futuro che vogliamo.
Uno dei punti di forza dell’arte e dell’architettura è la capacità di immaginare e presentare una visione del futuro. Un progetto credibile potrebbe andare oltre le preoccupazioni specifiche della crisi attuale o della prossima, contribuendo agli sforzi di altri professionisti, intellettuali e cittadini comuni per creare un nuovo modello di società.
Motivati dall’urgenza del momento, gli architetti dovrebbero avere il coraggio di ripensare le strutture sociali esistenti per proporre un nuovo sistema basato sulla scienza, la filosofia e i princìpi dei diritti umani. Questa crisi rappresenta un’occasione straordinaria per trovare un equilibrio migliore tra la natura e la società.
A questo articolo hanno contribuito Lemma Al Ghanem, architetta siriano-americana, Paola Faro, architetta italiana, ed Eirini Grigoriadou, architetta greco-britannica.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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