Avevo deciso di non scrivere niente sul decimo anniversario della nostra rivoluzione, ma la Libia è un po’ come quando ti prude il palato e non riesci a smettere di grattarlo con la lingua. I principali mezzi d’informazione hanno messo sotto i riflettori i cattivi libici e ridotto il resto della popolazione a una massa di voci disincarnate, in parte perché con quell’approccio è più facile vendere le storie, ma anche perché non sono interessati a cogliere i dettagli. Voglio tornare su una storia di cui hanno scritto in molti all’epoca. Riprenderò da dove ero rimasto.
Ahmed al Bukhari è uno scrittore libico. Nel 2012 pubblicò il suo primo romanzo, Kashan, con cui vinse un premio in Libia. Alla fine del 2017 alcuni capitoli del romanzo furono inseriti in un’antologia intitolata Sun on closed windows, che raccoglieva le opere di 22 giovani scrittori libici. Il volume provocò un’ondata di sdegno in tutto il paese, una campagna d’odio e perfino minacce di morte, soprattutto a causa del testo di Al Bukhari, che sfidava tabù sociali e religiosi, e così sparì dalla circolazione.
Due anni dopo ho cercato il libro, non è stato facile ma ne ho trovata una copia firmata da Al Bukhari nascosta da un mio amico. L’ho contrabbandata leggendola in aereo mentre venivo in Italia. Ne ho parlato a Livorno e all’Università di Bergamo, dove molti studenti si chiedevano se fosse possibile recuperare l’opera. Ho dato il libro alla persona che aveva organizzato l’evento, perché non mi sembrava giusto che la sua avventura finisse con me, a raccogliere polvere su uno scaffale a Roma. Doveva continuare il suo viaggio.
Mettere insieme i pezzi
Ho chiesto ad Al Bukhari di raccontarmi le sue peripezie dopo l’uscita dell’antologia. Lo scrittore ha ricordato il giorno in cui si è svegliato e ha trovato innumerevoli notifiche e messaggi sulla sua pagina Facebook. Ne ha aperto uno a caso: una persona gli diceva che tutto il paese era sottosopra e ce l’aveva con lui. “All’inizio non capivo cosa fosse successo. Il mio nome era ovunque e ci ho messo un po’ a mettere insieme i pezzi e capire la storia”.
Nel 2012 il romanzo non aveva ricevuto molta attenzione, ma cinque anni dopo aveva scatenato critiche e censura. Questo perché al momento della pubblicazione, mi ha spiegato Al Bukhari, il libro era circolato solo in ristretti gruppi d’intellettuali e non aveva raggiunto il grande pubblico. Ma non era l’unico motivo. “Quando è stata lanciata l’antologia, nel 2017, c’era un regolamento di conti tra due gruppi religiosi in città: uno aveva sede nell’edificio in cui si teneva l’evento di presentazione del libro, ma poi è stato cacciato dall’altro. Qualcuno del secondo gruppo ha preso il libro, ha visto i capitoli del mio romanzo e ne ha condiviso le pagine su Facebook. Questo ha scatenato la reazione”.
A quanto pare però la società non era pronta a guardarsi allo specchio
Nel romanzo Kashan, Al Bukhari racconta la storia di cinque giovani provenienti da ambienti sociali diversi che decidono di distruggere il mondo, a partire da Tripoli, la capitale della Libia, per poterlo ricostruire da capo. La parte controversa riguardava i dialoghi di uno dei personaggi, che erano molto colloquiali, come parla la maggior parte dei libici per strada. A quanto pare però la società non era pronta a guardarsi allo specchio. Lo sdegno ha investito poi tutti gli scrittori inclusi nel libro, le milizie armate hanno arrestato e torturato uno di loro e a quel punto Al Bukhari ha cominciato a temere non solo per la sua sicurezza, ma anche per quella degli altri.
“Sono abituato alle minacce e agli insulti, ma avevo paura per la mia famiglia, che ha subìto i danni peggiori. I miei familiari sono stati incolpati di aver portato un seme cattivo nella società. All’epoca mi descrivevano come il diavolo che avrebbe distrutto la società libica e mi ritenevano responsabile di tutti gli atti immorali che si verificavano. Chi ha portato qui questo diavolo? Chi l’ha cresciuto? Chi l’ha nutrito? La mia famiglia! Ho trascorso giorni nel terrore che attaccassero casa mia e facessero del male ai miei genitori. La società libica si basa sul concetto di tribù. Questo significa che non sei solo tu a essere ritenuto responsabile delle tue azioni. Tutta la tua famiglia e la tua tribù ne subiscono le conseguenze”.
La risposta ufficiale del governo è stata sconvolgente. Non è stato fatto alcun tentativo per proteggere gli autori, neppure con una dichiarazione, e il ministero della cultura ha denunciato e messo all’indice il libro.
“In pochi mi hanno sostenuto. Mi mandavano soprattutto messaggi privati, perché non potevano difendermi pubblicamente, e questo lo capivo, perché l’onda era così alta che avrebbe travolto chiunque si fosse messo in mezzo. Eppure la mancanza di sostegno pubblico mi ha fatto male. Quando le persone che pensi rappresentino l’élite intellettuale ti abbandonano, quando il governo ti abbandona, è come se restassi da solo a resistere contro un intero esercito. Ero in pericolo”.
Il pericolo è aumentato ancora quando un leader del movimento salafita a Tripoli in un sermone si è scagliato contro il libro e i suoi autori, definendoli infedeli e nemici di dio. Una registrazione del sermone ha cominciato a circolare tra i seguaci del salafismo e a qual punto Al Bukhari ha capito di dover lasciare il paese. “Avevo già un visto tedesco. Mio fratello si trovava in Germania e mi ha detto di non aspettare oltre perché mi avrebbero arrestato. Sono partito con il primo aereo”.
Giusto o sbagliato
Al Bukhari ora vive e studia in Germania, dove è più attivo che mai con podcast, video su YouTube, articoli e webinar. Parla di letteratura, ma anche di questioni sociali e politiche riguardanti la Libia. Nel 2018 ha pubblicato il suo secondo romanzo, Alkhidr, in cui ricrea un mondo in preda a surreali dispositivi sociali e politici. Al centro del romanzo ci sono le conflittuali credenze religiose e filosofiche dei protagonisti. La trama procede a grande velocità e a ogni capitolo si passa da un personaggio all’altro, assumendo il loro punto di vista sulla realtà. In una scena, un personaggio tenta di uccidere il padre, che potrebbe rappresentare lo stato o il regime. Un altro sostiene che non bisognava ucciderlo, perché la società non è pronta. Ho chiesto ad Al Bukhari di spiegarmi la scena, e cosa pensa di quello che è accaduto in Libia dieci anni fa.
“Mi porto ancora dentro questo conflitto tra la soluzione radicale e la soluzione graduale. Questo dualismo non esiste solo nella storia della rivoluzione libica, ma è presente in tutte le nostre conversazioni. Da un lato ci sono quelli che credono nello scontro, che vogliono distruggere dalle fondamenta la società e i suoi valori arretrati invece di cercare di rinnovarla e renderla migliore. Dall’altro ci sono quelli che pensano che la società dovrebbe essere ricostruita gradualmente perché lo scontro genererà una reazione opposta. Vale anche per la religione: dovremmo boicottare l’istituzione religiosa in toto e abbandonarne completamente l’eredità? O dovremmo riformarla dall’interno e reinterpretare i testi religiosi? Questa lotta tra radicali e riformisti vive dentro di me e il romanzo non ha contribuito a risolverla. E questo ci riporta alla rivoluzione libica. Quello che è accaduto è giusto o sbagliato? Scontrarsi con il regime era la cosa giusta da fare, o avremmo dovuto intraprendere un’altra via?”.
Sono passati dieci anni dall’inizio delle manifestazioni contro Muammar Gheddafi per le strade di Tripoli, con lo slogan “Il popolo vuole abbattere il regime”. Le autorità hanno risposto con i proiettili, cominciando una scia di sangue che non si è più fermata. Ho chiesto ad Al Bukhari dove si trovava quel giorno. Mi ha risposto:
“Quando siamo arrivati in piazza non c’era una guerra civile, non c’erano persone che si uccidevano tra loro, non c’erano ancora eserciti o aerei da combattimento stranieri, non c’era niente. C’era solo un regime all’interno del quale eravamo nati e avevamo vissuto tutta la vita. Siamo cresciuti con restrizioni e tabù che non osavamo infrangere nemmeno con le parole. Poi all’improvviso mi sono ritrovato per strada a gridare ‘Abbasso il regime’. Nonostante tutto, giusto o sbagliato che sia quello che è successo, nel bene o nel male, allora sentivo solo che stavamo spezzando la catena che ci portavamo dentro. Per la prima volta potevamo esprimerci; per la prima volta stavamo manifestando, come avevamo visto fare solo in altri paesi. Non avevamo armi, non avevamo nulla con noi. Eravamo solo persone che scendevano in piazza e si esprimevano. Questa è la mia unica ossessione, la libertà, il fatto che nessuno può reprimermi o impormi qualcosa. Come potresti impedirmi di dire qualcosa? O di scrivere qualcosa? Questo per me è il momento più prezioso di dieci anni fa. Quello che è successo dopo riflette la consapevolezza della comunità, gli stereotipi intellettuali e le scelte che si sono sovrapposte le une alle altre e ci hanno condotti dove siamo oggi. Perché stiamo parlando di una società clientelare ancora preindustriale, premoderna e zavorrata da molte ideologie. Forse è stato naturale che le cose andassero a finire così”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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