Sono sul treno (gremito) di ritorno da Modena, città che conoscevo poco ma che mi ha trasmesso un’impressione di vivacità culturale, voglia di fare e sana dedizione al culto del vivere bene, quasi che il terremoto avesse galvanizzato l’anima cittadina in un momento poco galvanizzante per il resto del paese. Ma ci ho passato solo 24 ore, quindi rimane solo un’impressione.
Ero lì perché la rivista inglese di interni e storia dell’arredo World of Interiors mi ha mandato per visionare due cose di rara bellezza all’interno del Palazzo dei musei. Uno era un libro, anzi due: i due volumi del catalogo Settala, un codice seicentesco conservato alla Biblioteca estense. L’altra era una sala di museo: quella che ospita la collezione di tessuti che il conte Luigi Alberto Gandini lasciò ai musei civici di Modena nel 1886.
È la prima volta che consulto un libro così raro e prezioso da giustificare la presenza di una bibliotecaria, seduta poco distante, che mi guarda mentre guardo il libro. Però la sensazione di essere sorvegliato mi è durata poco, perché i disegni, fatti a inchiostro e pastello, del
Wunderkammer di Manfredo Settala, un collezionista milanese del seicento (figlio del Ludovico citato nei Promessi sposi), erano belli da togliere il fiato.
Bello come l’allestimento del Museo civico d’arte, una raccolta pubblica che respira ancora lo spirito positivista e progressista di una nazione appena nata (l’atto di fondazione del museo risale al 1871). La collezione era stata concepita non come galleria di capolavori ma, almeno in parte, come repertorio di modelli per stimolare un rinascimento dell’industria e l’artigianato in città.
Era un museo molto avanzato per l’epoca, non solo per questo suo impegno civico, che prendeva volutamente le distanze dai criteri estetici e dinastici dell’altra raccolta modenese nata in quelli anni, la Galleria estense, ma anche per la sua sensibilità verso problemi di conservazione. I tessuti della collezione Gandini si trovano tuttora nelle loro teche originali di legno e ferro, con enormi vetrate che li proteggono dalla polvere, e con un’illuminazione soffusa, realizzata attraverso dei grandi lucernari nel soffitto.
Nelle tre ore che ho passato al Museo civico d’arte, ho visto solo due altri visitatori. C’era leggermente più traffico turistico al duomo, ma poca roba rispetto alle folle che ho visto ultimamente a Roma o Venezia.
Lo so, è di una banalità estrema dire che i centri minori meriterebbero più visitatori. Forse è un po’ meno banale mettere in discussione il concetto di “maggiore” e “minore”, sfidare la logica di classifica che determina i flussi turistici. Il turismo culturale di massa è basato, mi sembra, sull’idea che la cultura ci edifica, e che un capolavoro concentra questo potere edificante al massimo grado – da cui la sensazione molto diffusa di stare davanti al Davide di Michelangelo o all’interno della Cappella Sistina e di provare quello che io chiamo guilty disappointment, la delusione colpevole: delusione perché non ci arriva l’effetto sperato, colpevolezza perché pensiamo che il problema stia in noi.
Mentre in realtà il problema è il disempowerment culturale creato dalle classifiche delle bellezze turistiche. Molte volte la scelta di cosa vedere quando siamo in vacanza è determinata più dalla paura di perdere una cosa “imperdibile” (“Cosa? Sei andato a Parigi e non hai visto il Louvre?!”) che dall’effettiva voglia di vederla. Così il nostro soggiorno rischia di trasformarsi in una serie di appuntamenti doverosi.
Bisogna ribellarsi. Bisogna fondare un turismo contro. Tra i princìpi fondatori ci potrebbero essere:
1) Visitare solo i posti che sono difficili da visitare. Esempio: la Boschereccia, una bellissima sala trompe l’oeil dipinta nei primi anni dell’ottocento dall’artista Rodolfo Fantuzzi a palazzo Hercolani, oggi sede della facoltà di Scienze politiche all’Università di Bologna. Ci vuole il permesso per vederlo; perfino molti bolognesi non sanno che esiste.
2) Visitare il cantiere, non l’opera. Esempio: le cave di Cusa, che hanno fornito i rocchi per le colonne del tempio greco di Selinunte. Vedere questi massi cilindrici lavorati a metà (le cave sono state abbandonate da un giorno all’altro, non si sa bene perché) è per me più emozionante di vedere l’opera compiuta, anche perché il posto e incantevole. Mi ricorda la poesia Ozymandias di Shelley: è uno dei posti che trasmette in modo eloquente l’hubris di un sogno imperiale.
3) Fissarsi una missione: prima di andare via da questa città, entrerò in una casa privata, invitato dal proprietario o l’inquilino (e no, entrare attraverso un sito di couchsurfing non conta, è troppo facile).
4) Visitare le opere d’arte solo in compagnia dei familiari, amici, nemici o discendenti dell’artista, o del soggetto rappresentato. Esempio: una delle esperienze culturali più belle che abbia mai fatto a Milano è stata una visita allo studio museo Achille Castiglioni in compagnia della signora Irma Castiglioni, vedova del grande progettista e leggenda del design italiano. Non era un privilegio da giornalista: se prenotate una visita guidata allo studio museo è quasi sempre o la signora Irma o la figlia Giovanna che la conduce.
5) In Italia, visitare solo le località con nomi composti da tre lettere o meno. Quanti turisti finiscono a Rho, Bra o Ne? (Ora che ci penso, a Ne ci sono stato, c’era un ristorante dove ho mangiato molto bene. Al ritorno verso Santa Margherita Ligure in Vespa sono stato punto, guarda caso, da una vespa che si è infilata nel casco, ma non credo che sia stata colpa di Ne).
6) Viaggiare soli. Quando sei da solo capitano degli incontri che forse non capiterebbero se fossi protetto dal gruppo o dal rapporto di coppia. Tipo adesso, sul treno Intercity Modena-Chiusi: la bonaria signora romana davanti a me, che sembra la sorella di Aldo Fabrizi, mi dice che in realtà è la sorella di Carlo Simi. Vi rendete conto? Lo scenografo e costumista di Sergio Leone? Quello che ideò il poncho portato da Clint Eastwood nella “trilogia del dollaro”, per non parlare della città di El Paso ancora (in parte) esistente nel deserto di Tabernas vicino ad Almeria? Ho quasi pianto per l’emozione.
Scusatemi, forse nell’ultimo principio fondatore del turismo contro mi sono un po’ distratto. Ma lasciarsi distrarre, seguendo dei filoni tematici come capitano (che so, la lucertola nell’arte rinascimentale), mi sembra un’altra buona regola del turista non condizionato. Se vi vengono in mente delle altre regole, opere o destinazioni, fatemi sapere…
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