Reduce da una festa in laguna martedì notte sullo yacht di Lapo Elkann (no, non sono il tipo, vi giuro che mi è arrivato l’invito per puro caso, probabilmente per uno scambio di persona), mi sono trascinato a vedere Il fondamentalista riluttante di Mira Nair alle nove di mercoledì mattina alla sala Darsena. Una sala che per un po’ di anni ha cambiato nome con ogni nuova edizione del festival, un po’ come il gruppo new wave inglese [Spizzenergi][1].

Basato sul

[romanzo][2] di Moshin Hamid, il film di apertura del festival di Venezia è un thriller etico-politico interamente costruito intorno al messaggio che vuole comunicare: in un clima di sospetto reciproco tra l’occidente e i paesi islamici, lo spessore delle due culture, i loro punti di incontro e dialogo, e i valori umani che le sostengono vengono malintesi e alla fine calpestati, respinti, negati.

Il film narra la storia di Changez (il bravo Riz Ahmed), un ragazzo pachistano che diventa una stella nascente di Wall street, ma poi molla tutto per tornare a insegnare scienze politiche in un’università di Lahore, dove verrà sospettato di predicare la guerra santa. Un giorno va a intervistare un giornalista americano (Liev Schreiber) che non è tutto ciò che sembra.

A proposito, ma dove sono tutti questi agenti della Cia che vanno per il mondo a reclutare giornalisti? A me non si sono mai presentati. Sono anche un po’ offeso. Pensano forse che non ho il fisico per essere calato in un festival del cinema in territorio nemico?

Tornando al film, il messaggio determina tutto: trama, personaggi, dialoghi, perfino costumi e trucco compresa la barba “Taliban lite” che Changez si farà crescere come segno di ribellione. Per arrivare a quel messaggio finale bisogna far subire a Changez umiliazioni di ogni genere dopo l’11 settembre, dargli una ragazza americana che alla fin fine non crederà in lui, fare dei parallelismi beceri tra i fondamentalismi di Wall street e quelli islamici. E bisogna dare al giornalista spia una coscienza controversa.

Tutto, insomma, diventa matematico, come se il film fosse generato da un programma di scrittura automatica di sceneggiatura dove l’operatore ha scelto l’opzione “storia-seria-che-ci-fa-pensare-e-ci-insegna-qualcosa”. La ruggine del meccanismo è appena mascherata dalla bravura degli attori, dalla nitidezza della fotografia, dall’emotività della colonna sonora.

Il film si fa vedere insomma, ma è un po’ come in quei sogni in cui sai che stai sognando (sono l’unico che li fa?). È un film durante il quale non ti dimentichi per un attimo che stai guardando un film.

Mi sono consolato con un divertissement cinese fuori concorso, [Tai Chi 0][3]. Era proprio quello che ci voleva dopo la solennità didattica del film di Nair: una favola kung-fu/steampunk esilarante e con la giusta dose di autoironia.

Un’altra consolazione è il fatto che [il buco c’è ancora][4], eccome. Che Mostra del cinema sarebbe senza questo scempio sul lungomare, proprio davanti al casinò, con la sua carica di amianto a ricordarci della fragilità della vita? E pare che potremo godere per molti anni ancora questo grandissimo vuoto metaforico, che allude giocosamente alla preistoria del cinema con una serie di fenditure attraverso le quali è possibile godere lo spettacolo.

Vi lascio con il primo di una serie di filmati amatoriali che non vengono proiettati al Lido, ma che sono girati da quelle parti. Sono dei rifacimenti miei, in stile povero (anzi, pietoso), di alcuni classici cinematografici italiani. Il primo si chiama Deserto Rosso.

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