Ho appena visto il nuovo film di Giuseppe Tornatore, The best offer, in lingua “originale”. Cioè in inglese. Essendo Tornatore l’autore anche della sceneggiatura, si tratta chiaramente di un film scritto in italiano e poi tradotto in inglese in modo che Geoffrey Rush, Jim Sturgess e gli altri attori, tutti anglofoni tranne l’olandese Silvia Hoeks, possano recitare comodamente nella loro lingua madre.
Scelta che, in teoria, dovrebbe anche aumentare le prospettive del film di essere visto e distribuito all’estero. Ha anche il merito di spaesare lo spettatore - volutamente, immagino - visto che gran parte del film è ambientato in una città mai nominata, ma che sicuramente si trova in qualche regione della Mitteleuropa, e non (come l’accento dei personaggi farebbe pensare) nell’Inghilterra del sud.
Il protagonista, interpretato abilmente dall’ammirevole Rush, è un esperto d’arte e banditore d’asta così bravo che sa riconoscere l’autore di un dipinto con uno sguardo veloce e sa distinguere un falso dall’originale per un dettaglio banale, magari un piccolo colpo di pennello.
Darò in altra sede un mio giudizio complessivo sul film. Ora volevo soffermarmi solo sui dialoghi “originali”, davanti a cui mi sono sentito un po’ come il personaggio di Rush mentre guarda un falso ben fatto.
I dialoghi sono quasi perfetti. Ma non sono perfetti. Sono tradotti bene. Ma sono tradotti. Forse dopo anni di convivenza con l’italiano ho acquistato un certo orecchio per delle minime sfumature. Ma, per essere onesto, in questo caso le sfumature non sono così minime e più di una volta mi sono trovato a riconoscere l’ossatura di una frase o di una parola italiana sotto la sua trascrizione inglese.
Un esempio? Eccone uno lampante. A un certo punto il personaggio di Rush sta spiando, da dietro una statua, una giovane donna che ha qualche problema di agorafobia. Lei sta parlando al telefono con un uomo, a cui si rivolge dicendo “Hello, director… yes, director…”. La prima volta non capivo neanche il senso di questo modo inedito di rivolgersi – stava parlando forse con il regista (
director) di un film di cui aveva dimenticato il nome? Poi, dopo qualche scena, la conversazione si ripete e tutto diventa chiaro. Sta rivolgendosi al direttore di una casa editrice.
Ora, lasciamo da parte il problema che in inglese il capo di una casa editrice sarebbe un publisher, o se proprio vogliamo il managing director di una publishing house. Ma anche ammettendo il titolo director, nessuno si rivolgerebbe a lui, in inglese, usando questo titolo. Anche chi ha fatto l’inglese a livello scolastico saprà che nel Regno Unito non c’è la stessa proliferazione di titoli, a parte la famiglia reale e la chiesa. Quindi, rivolgendosi a un ragionere di nome Smith, si dice “Mr. Smith”; rivolgendosi a un architetto di nome Smith, si dice “Mr. Smith”; rivolgendosi a un presidente degli Stati Uniti di nome Smith, si dice “Mr. Smith”, o se proprio vogliamo, “Mr. president” (ma mai e poi mai “president” da solo).
Quindi, per la ragazza al telefono, il direttore di una casa editrice, anche la più prestigiosa del mondo, sarebbe un semplice “Mr. Pinco Pallino”, a meno che la Regina non lo avesse fatto diventare “Sir Pinco Pallino”.
Sono troppo pignolo? Può darsi – ma quando i dialoghi stonano, stonano e basta, non c’è niente da fare. Poi però mi è venuta in mente una cosa: è possibile che Tornatore abbia introdotto queste stonature nella versione “originale” di The best offer come gioco postmoderno, trattandosi di un film sulla difficoltà di distinguere ciò che è falso da ciò che è autentico?
E se questo post, scritto nel mio italiano leggermente anglicizzato, facesse parte dello stesso gioco? Ok, lo ammetto: mo’ sto exaggerating.
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