Ho appena finito di leggere una recensione sulla London Review of Books di due libri di storia del fascismo usciti ultimamente in Gran Bretagna: Fascist voices: an intimate history of Mussolini’s Italy, di Christopher Duggan, e The fascist party and popular opinion in Mussolini’s Italy, di Paul Corner: i prodotti più recenti di un filone molto fertile della storiografia britannica, il cui apice finora è stata la biografia di Mussolini del grande Denis Mack Smith.

L’autore dell’articolo, Richard J. Evans, fa un confronto tra la decisa politica di denazificazione nella Germania del dopoguerra e la scelta dell’Italia di premiare la continuità (o di dare un colpo di spugna, a seconda del punto di vista). Evans ci ricorda, tra le altre cose, che ancora nel 1960, diciassette anni dopo la caduta di Mussolini, 60 dei 64 prefetti italiani e 135 su 135 capi della polizia erano stati nominati sotto il regime fascista.

Riflettendo su questo fatto, e sulla rivelazione fatta da Silvio Berlusconi durante la presentazione di un libro di Bruno Vespa nel dicembre 2011 che “sto leggendo i diari di Mussolini e le lettere della Petacci e devo dire che mi ritrovo in molte situazioni”, Evans scrive che “è impossibile immaginare un uomo politico tedesco di oggi ammettere che ‘si ritrova’ nella corrispondenza di Hitler e Eva Braun”. Per Evans, sarebbe altrettanto impossibile che “un uomo politico tedesco sostenesse che ‘Hitler non ha mai ucciso nessuno’” (riferendosi sempre a un giudizio di Berlusconi su Mussolini, questa volta del 2003).

Non voglio aprire l’ennesima polemica su presunte simpatie fasciste o meno di Berlusconi. Preferisco affrontare la questione del peso della storia sul presente. Sarà perché ho superato i cinquant’anni, un’età in cui i libri di storia cominciano a dare più soddisfazione dei romanzi. O perché vedo le cose in modo con una visione più macro, mentre una volta prediligevo le microletture. Ma ora mi accorgo sempre più che gli avvenimenti di cinquanta, settanta, cento anni fa hanno un effetto a volte subdolo e schiacciante sulla psiche di un paese e sulle scelte che fa oggi.

Fine dell’impero

Nel mio paese d’origine, la Gran Bretagna, non abbiamo mai digerito del tutto la perdita di quell’impero che nel 1922 copriva un quarto della superficie terrestre e un quinto della popolazione mondiale. Il risultato, spesso, è la sindrome Little Britain, una specie di orgoglio cagnesco – che non si esprime, cioè, in modo sano ma si contorce in fenomeni come il teppismo allo stadio, il tenere l’Europa a debita distanza, pur ammettendo qualche convivenza, l’illusione che abbiamo un rapporto paritario con gli Stati Uniti. E, non ultimo, la nostra passione per la birra tiepida.

In Italia, ugualmente, sono convinto che la mancata rottura netta con il ventennio abbia avuto un effetto nocivo che il paese sta ancora smaltendo. Per fare solo un esempio che mi viene in mente: è possibile che i tanti misteri irrisolti del dopoguerra, dal sequestro Moro a Ustica alla strage di Bologna, siano rimasti irrisolti, anche in parte, per un meccanismo di mistificazione legato a un senso di colpa nazionale (perché mistificare vuol dire non dovere affrontare)? O legato alla volontà, da parte di chi aveva interesse a non fare uscire la verità, di fare leva su tale senso di colpa?

Lo so, sarebbe il tema per un libro, non un post. Ma mi piacerebbe sapere se pensate che questa mia analisi da straniero in Italia sia totalmente sbagliata. E, se pensate che l’analisi in sé è sbagliata, ma che i traumi della storia italiana abbiano comunque una grossa influenza sul presente del paese, allora quali sono per voi questi traumi, e come si percepiscono gli effetti oggi?

Ps. Per offire due altri esempi dal mio paese, alla perdita dell’impero aggiungerei la partizione dell’Irlanda nel 1921 e la legge sull’istruzione del 1944 (la cosiddetta Butler act) che ha sancito l’esistenza di una gerarchia sociale della scuola dell’obbligo in Gran Bretagna, con effetti devastanti sulla società.

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