La morte di Margaret Thatcher mi ha riportato all’Inghilterra di quel maggio del 1979 quando la signora di ferro ha cominciato la sua carriera di primo ministro che sarebbe durata undici anni. Non solo era la prima donna eletta a capo del governo di un paese occidentale; ma erano anche più di 150 anni che un premier britannico non rimaneva in carica così a lungo, dai tempi di Robert Jenkinson, conte di Liverpool.
In quella primavera del 1979 io avevo 17 anni. Ero studente in una di quelle grammar schools inglesi che anni prima avevano formato anche Thatcher. La grammar school viene spesso paragonata al liceo italiano, ma, almeno nel periodo tra la legge sulla pubblica istruzione del 1944 e il decreto legge del governo laburista del 1975 che le aboliva (risparmiando però le leve, come la mia, che avevano già cominciato il percorso), erano un po’ diverse.
Erano dure: gli studenti erano selezionati all’età di undici anni attraverso un famigerato esame, l’
eleven plus. Erano considerate delle accademie di eccellenza per formare una classe di professionisti, prendendo gli studenti più promettenti della classe operaia o della piccola borghesia e rendendoli upwardly mobile, in ascesa.
Mio padre, che è morto prima che fossi accettato dalla Bristol Grammar School, era un allibratore; quello di Thatcher faceva il droghiere e il fruttivendolo. Dopo la scuola lei ha continuato gli studi a Oxford, io a Cambridge. Siamo due storie di successo. In un certo senso, eravamo stati cooptati dal sistema.
Perdonatemi se mi sono soffermato su un aspetto apparentemente marginale della biografia di una donna che ha trasformato la Gran Bretagna, ma il suo background provinciale e la sua formazione in una di queste scuole spiega molto della iron lady.
Spiega, per esempio, il suo sostanziale disprezzo per l’ala tradizionalista del suo stesso partito, ma anche per quei politici di sinistra provenienti dai ceti alti inglesi: ancora prima che venisse eletta, nel 1977, disse a proposito di due di loro: “La gente del mio ambiente sociale aveva bisogno delle grammar schools per competere con quella proveniente da famiglie privilegiate, come Anthony Wedgwood Benn e Shirley Williams”. Che, come la maggior parte della classe politica britannica, avevano frequentato le scuole private. Come succede ancora oggi.
Personalmente odiavo, e continuo a odiare, le trasformazioni che Thatcher ha imposto e che sono diventate da lì a poco così normali che perfino un leader “laburista” come Tony Blair ha poi sposato gran parte delle sue politiche a favore delle privatizzazioni, contro l’influenza dei sindacati, compiacenti verso la City e il trionfo dell’egoismo nella vita sociale ed economica del paese.
Ho manifestato contro la guerra nelle Falkland-Malvine nel 1982 e a favore dei minatori in sciopero nel 1984. Ho anche constatato con amarezza che nel Regno Unito, durante il regno di questa donna forte, la forbice tra la paga media degli uomini e quella delle donne anziché diminuire è aumentata.
Però, anche se Maggie e io abbiamo preso delle strade diverse, devo ammettere, quasi con orrore, che in parte mi riconosco in quel suo stile rude, in quella sua impazienza dallo stile paternalistico tipica delle ruling classes tradizionali dell’Inghilterra, nello slancio anarchico con cui sparava delle frasi del tipo “la società non esiste”.
Noi della grammar school generation eravamo delle mine vaganti formate dal potere: potevamo assecondarlo o esplodergli contro. E Margaret Thatcher ha fatto tutte e due le cose allo stesso tempo.
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