Seguendo i criteri dell’Academy of motion picture arts & sciences, casa madre degli Oscar, nessuna delle opere teatrali di Shakespeare conterebbe come sceneggiatura originale. Molte, come Romeo e Giulietta, erano rifacimenti di traduzioni inglesi di novelle italiane copiate, a loro volta, da altri autori o fonti orali. Molti altri erano pescate da raccolti di storia e leggende come i Chronicles di Holinshed.
Nella Grecia antica, non succedeva mai che un drammaturgo inventasse una storia. Per l’agone, o gara annuale della tragedia, il tema era prescritto: c’era l’annata dell’Elettra, poi magari un anno in cui tutti i concorrenti dovevano cimentarsi con Edipo, e così via.
Io ancora
Il grande Gatsby di Baz Luhrmann non l’ho visto, ma quello che mi colpisce già da adesso, sfogliando le prime recensioni americane e britanniche raccolte su siti come Rotten Tomatoes, è quanto sia pressante, oggi, l’esigenza di fedeltà alla fonte letteraria. Per citare solo l’estratto di una recensione, quella di Christopher Orr sull’Atlantic: “Il problema centrale con il film di Luhrmann è che quando è divertente non è Gatsby, e quando è Gatsby non è divertente”.
La nostra mania di fedeltà va di pari passo con un complesso di inferiorità: quello del cinema davanti alla letteratura. Nel suo libro Film adaptation & its discontents, lo studioso statunitense Thomas Leitch ci azzecca quando scrive che, per molte persone, “i romanzi sono dei testi, i film sono degli intertesti (intertexts) e in qualsiasi gara tra i due vince sempre il libro”. Una prova? Davanti alla marea di film tratti da libri, pensate al numero esiguo di libri che sono tratti da film (un esempio recente è Zona di Geoff Dyer, una strana, affascinante riscrittura/descrizione, scena per scena, di Stalker di Tarkovsky).
Hitchcock, il più shakespeariano dei registi, rifiutava l’asservimento del cinema davanti al testo letterario. In conversazione con François Truffaut, spiegava così il suo approccio all’adattamento: “In genere leggo il libro solo una volta e se mi piace l’idea di base, metto da parte il libro e comincio a creare del cinema”. Però, anche nel caso di un grande auteur come Hitchcock, il trucco funzionava, per i critici e il pubblico, solo finché adattasse dei libri pulp come The house of dr Edwardes, di cui deteneva i diritti per vent’anni prima che chiedesse allo sceneggiatore Hecht di usarlo come spunto per Spellbound. Quando invece si era permesso di riplasmare una vacca sacra della letteratura inglese come Rebecca di Daphne Du Maurier, apriti cielo. Perfino il produttore, David O. Selznick, brontolava davanti ad una prima bozza della sceneggiatura: “Abbiamo comprato Rebecca, e vogliamo fare Rebecca”.
Detto tutto questo, sono molto affezionato al libro di Fitzgerald, alla sua ambivalenza verso il mondo dorato che ritrae. È questa ambivalenza che da tono e tensione al racconto. Vediamo come Luhrmann affronta la sfida. Dal 15 maggio, nel mio live- tweeting da Cannes butterò giù le mie prime impressioni sull’impresa.
Nel frattempo, sarei curioso di sapere quali sono i vostri adattamenti cinematografici preferiti? Da parte mia, due candidati: il Riccardo III di Richard Loncraine del 1995, ambientato in una fantastorica Inghilterra fascista degli anni trenta, con un grande Ian McKellen nel ruolo principale. E Lady Chatterley, un film delicato, introspettivo, che il regista francese Pascale Ferran firmò nel 2006, basando la sceneggiatura su John Thomas e Lady Jane, bozza del 1927 di quello che sarebbe diventato, un anno più tardi, il romanzo scandaloso di Lawrence. Tutti e due dimostrano che, per fare rivivere un opera letteraria, il cinema deve tradire: solo così c’è la possibilità di essere fedele.
Il live tweeting di Lee Marshall da Cannes.
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