Succede quasi sempre così il terzo giorno di un festival: hai l’impressione di esserci da una settimana, invece sei solo all’inizio. Infatti, mancano ancora otto giorni.
Verso il terzo giorno, esci dalla proiezione stampa di un film cileno o sloveno e non ti ricordi più dove hai lasciato la bici. A volte non ti ricordi neanche se sei arrivato in bici.
Però per calmare le anime in fibrillazione cinematografica hanno fatto un bel giardino zen davanti al casinò.
La sindrome del terzo giorno è stata forse aggravata da un film tedesco di tre ore che è passato in concorso ieri sera: Die Frau des Polizisten (La moglie del poliziotto) di Philip Gröning, regista che qualcuno si ricorderà per il bello, contemplativo documentario del 2005 Il grande silenzio, il risultato di quattro mesi passati a osservare, condividere e inquadrare la vita all’interno del monastero della Grande Chartreuse, nelle Alpi Francesi.
Anche quello era un film che ci torturava con la sua lentezza, ma in senso positivo. Per apprezzare la vita di questi monaci bisognava entrare nei loro ritmi, che non sono i nostri (o almeno non sono i miei).
Qui, Gröning racconta in modo altrettanto lento l’incrinarsi del rapporto tra un giovane, immaturo poliziotto della provincia tedesca e la sua bella e fragile moglie, per arrivare alla violenza domestica di un uomo che è reso geloso, fino alla furia cieca, dall’amore tra lei e la loro bambina piccola.
Ci sono poche scene veramente drammatiche, forse quattro o cinque sui 59 “capitoli” in cui il film è diviso attraverso l’uso di intertitoli piuttosto irritanti che ti dicono, ogni volta, che il 32°capitolo (per esempio) è finito e il 33° sta per cominciare. Alcuni capitoli sono poetici e basta – per esempio, uno scoiattolo che saltella nel bosco – altri sono di difficile interpretazione, come quelli che fanno vedere la vita triste e solitaria di un uomo anziano. È il padre del poliziotto? Oppure lui stesso da vecchio?
Detto tutto questo, La moglie del poliziotto è un film che a volte supera il suo stile pretenzioso (pretenzioso perché controllato dal regista al punto da soffocare storia e dramma) per arrivare a delle scene memorabili che ti rimangono impresse, volente o nolente. Come quella, struggente, della lite finale tra lui e lei. Non è che Gröning abbia pensato che per farci capire la violenza domestica, doveva schiaffeggiare anche noi?
Poi, la bambina della coppia (interpretata, pare, da due gemelle a turni) è di una tale naturalezza che hai paura per lei (o loro). Non c’è film che vale il rischio di traumatizzare un bambino: sarei interessato a sapere che metodo abbia seguito il regista perché le sue attrici bambine accettassero i due attori come mamma e papà.
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