È possibile fare un film su un uomo che parla al telefono nella sua macchina per 85 minuti? Certo: Andy Warhol ha filmato per otto ore un ragazzo che dorme. Un’ora e mezza al telefono, in auto, è poca roba in confronto.

Il miracolo è che Locke, del regista britannico Steven Knight, non è un film sperimentale. O lo è solo nella sfida che lancia a se stesso, nel suo rispetto totale e insolito (nel cinema) delle unità aristoteliche di tempo, spazio e azione.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Locke, che per qualche strano motivo Alberto Barbera ha deciso di mettere fuori concorso a Venezia (o sono stati i produttori a non voler gareggiare?), è un film avvincente, emozionante, un dramma personale ed etico di notevole spessore, tutto giocato sulle telefonate che un caposquadra esperto di gettate di calcestruzzo nei cantieri edili riceve o fa durante un viaggio in autostrada verso Londra.

È partito di corsa per assistere alla nascita del figlio, concepito durante il rapporto occasionale di una notte con una donna sola, fragile, che lui non ama. Ama invece sua moglie e i suoi due figli, che sono a casa a guardare la partita. Anche lui doveva essere lì con loro. Non sanno niente: il bambino sta nascendo con due mesi di anticipo e l’uomo ancora non ha avuto il coraggio di dire che lui – memore di suo padre assente, che odia – ha promesso alla donna non solo di riconoscere il bambino, ma anche di essere per lui un padre vero e presente.

C’è una complicazione: la mattina dopo doveva far una gettata di calcestruzzo di molte tonnellate, il più grande mai tentato in Europa nel campo dell’edilizia civile. Diventa, così, la storia di un uomo pacato, un buon padre di famiglia, considerato un lavoratore affidabile, che perde tutto in una notte solo perché vuole fare la cosa giusta dopo aver fatto una cosa sbagliata. Continua, molto pacatamente, a fare le cose che ritiene giuste nei confronti della sua famiglia e del suo datore di lavoro anche quando tutto sta andando a rotoli. Nel suo piccolo, conversazione dopo conversazione, diventa una specie di eroe di un film western o di guerra.

Tom Hardy (il cattivo Bane nel Cavaliere oscuro-Il ritorno) è pienamente all’altezza di un film che poggia tutto sulle sue spalle. Lotta per rimanere calmo, rifiuta di sbilanciarsi o di dire una bugia che forse avrebbe salvato il suo matrimonio. E sulla sua faccia da brav’uomo le emozioni trattenute si susseguono come i fari e i fanalini di coda sul parabrezza.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it