I festival di cinema servono anche a nutrire un pluralismo di opinioni della critica. Due film che sono passati a Venezia tra martedì e mercoledì hanno spostato critici e pubblico verso estremi opposti.
Under the skin, con Scarlett Johansson nei panni di un’aliena cacciatrice di uomini in una Scozia grigia e piovosa, merita solo una stella da parte dell’Independent, mentre i critici del Guardian e del Daily Telegraph gliene danno cinque a testa.
Anche il film del regista taiwanese Tsai Ming Liang,
Stray dogs (Cani randagi), sembra destinato a dividere. Anna Maria Pasetti del Fatto Quotidiano lo definisce “un’esperienza magnetica”, e le fa eco David Jenkins di Little White Lies, secondo cui è addirittura “probabilmente il miglior film del 2013”. Altri l’hanno definito “tremendo, manierista, irritante”, e molti sono usciti di sala durante una delle inquadrature estenuanti di cui il film è cosparso.
Una di queste, che durerà sì e no sei minuti, mostra un padre che mangia, sbranandolo con denti e mani, il cavolo che sua figlia ha comprato e che ha deciso di portare a letto con sé come una specie di bambola. Dopo circa tre minuti, il padre comincia a piangere, ma continua a mangiare il cavolo crudo.
In un’altra scena una donna, che potrebbe essere la moglie del uomo di cui sopra, sta in piedi immobile in una stanza vuota, piena di calcinacci, a fissare un murale sulla parete di fondo che raffigura un paesaggio di montagna. Dopo due o tre minuti tira su la gonna, si accovaccia, e piscia sul pavimento. Finito il flusso, si rialza e se ne va lentamente.
A un certo punto mi sono addormentato durante un’inquadratura dell’uomo e la donna insieme, di nuovo nella stanza del murale. Quando mi sono risvegliato erano ancora lì, nella stessa posizione. Eppure non è un film che ho odiato. Durante la proiezione è come stare dal dentista, ma questo strano nucleo familiare che vive nelle rovine di una metropoli anonima mi sta ancora risuonando nella testa a tre ore della fine. È un film di grande pathos, ma come la storia (quasi inesistente) genera questo pathos non potrei dire.
Credo che in un film del genere, la polarizzazione delle opinioni derivi anche dal fatto che, da una parte, l’insofferenza verso i ritmi lentissimi e la trama impenetrabile può indurre uno spettatore a chiudersi e non far entrare i momenti di poesia; ma d’altra parte, l’eroismo che si sente ad aver resistito fino alla fine di due ore e quindici minuti di scene astruse, arcane e a volte, diciamolo, proprio pallose, può indurre il cinefilo più oltranzista a gridare al capolavoro.
Resistere all’una e l’altra tendenza è un’impresa, ma in questo caso, per me, è la sola strada che porti alla verità sul film. Che in sintesi è questa: Cani randagi è un capolavoro palloso.
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