A differenza di Cannes o Venezia, il Festival internazionale del cinema di Berlino (dal 5 al 15 febbraio) annuncia i suoi film un po’ alla volta nei due mesi precedenti, sezione per sezione, evitando l’euforia ma anche (tante volte) la delusione della conferenza stampa in cui tutto il programma viene svelato in un colpo solo. Adesso che manca un giorno alla partenza possiamo azzardare un profilo dell’annata.
La definirei opaca, ma promettente. Anche perché segue una tendenza in atto alla Berlinale già da tempo: una vistosa assenza di importanti film d’autore che sperano di approdare a Cannes, con la conseguenza che – con una manciata di eccezioni – bisogna guardare agli esordi, ai film “strani”, alle sezioni parallele, ai documentari, per trovare delle potenziali chicche.
Cominciamo dalla manciata. E to’, guarda chi c’è: Terence Malick, che dopo gli anni di carestia creativa è diventato una specie di Woody Allen, con tre film usciti in quattro anni (mentre tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa abbiamo dovuto aspettarne venti). Quest’ultimo si chiama Knight of cups e a giudicare dal trailer sembra proseguire la linea degli ultimi due film, The tree of life e Tu da wanda?, pardon, To the wonder: sfondo cosmico, narrazione frammentaria, trama incentrata su un uomo (Christian Bale) che entra in una crisi esistenziale, stressando così una donna (Natalie Portman) che lo preferiva com’era prima. Ma non si può giudicare da un trailer. Il cast, che comprende anche Cate Blanchett e Antonio Banderas, è promettente, ammesso che tutti gli attori sopravvivano ai famosi tagli.
Se qualcuno mi avesse detto vent’anni fa che un giorno Werner Herzog avrebbe fatto un film con Nicole Kidman, gli avrei dato del pazzo. Invece eccolo qua: Queen of the desert, sulla strana figura di Gertrude Bell, esploratrice, alpinista, linguista, donna indipendente che fece ben sei viaggi in Arabia tra il 1900 e il 1912, consigliera del governo britannico in Medio Oriente, coautrice della nascita dell’Iraq come stato indipendente, ma anche paladina accanita dell’establishment che lei stessa sfidava, potenziale protofemminista che, sfortunatamente, era contraria al diritto di voto per le donne e odiava le suffragette. Il materiale – incentrato sulla storia d’amore mai consumata tra Bell e un ufficiale dell’esercito britannico – non sembra farina del sacco di Herzog, ma il regista tedesco è sempre imprevedibile. Il suo ultimo film di finzione, Bad lieutenant: port of call New Orleans era molto dark e molto gustoso.
Ci saranno anche: Cenerentola, versione live-action della fiaba, con regia di Kenneth Branagh e Lily James nel ruolo della sguattera che si ribella alla politica di austerità imposta dalla matrigna cattiva Cate Blanchett (sì, sempre lei); Life di Anton Corbijn (regista di Control), sull’amicizia tra James Dean e il fotografo Dennis Stock, con Dane DeHaan e Robert Pattinson; Ian McKellen (Gandalf, certo, ma era molto più bravo come Riccardo III) nel ruolo di uno Sherlock Holmes di 93 anni in Mr Holmes di Bill Condon; Every thing will be fine, il primo Wim Wenders drammatico dopo l’imbarazzante Palermo shooting; e quello che si annuncia come un capolavoro del cinema d’impegno femminista, Cinquanta sfumature di grigio.
C’è anche un’italiana in concorso, l’esordiente Laura Bispuri. Vergine giurata narra la storia di Hana (Alba Rohrwacher), una giovane albanese, nata in una zona remota del paese, che diventa vergine giurata, rinnegando per sempre la sua sessualità, perfino la sua femminilità, per sfuggire allo stato di semischiavitù riservata alle donne in quella società. Della regista so solo che è romana e ha fatto un paio di corti; ma per essere catapultata in concorso in uno dei tre più importanti festival europei al primo tentativo, qualche talento dovrebbe averlo.
Ho imparato a non fare pronostici prima dei festival, dopo aver incassato tante sorprese buone e cattive negli anni. Però in concorso ci sono tre film più “piccoli” per cui sto tifando in modo particolare, perché ho amato a dismisura almeno uno dei film precedenti dei rispettivi registi. Eccoli.
El botón de nacár (Il bottone di perla)
di Paolo Guzmán
Non mi pare che Nostalgia de la luz (2010), l’ultimo lungometraggio di questo regista cileno, sia mai uscito in Italia. Peccato, perché era un documentario bello, poetico e struggente. All’inizio sembrava una specie di reportage stile National Geographic sul deserto di Atacama, il luogo più arido della Terra, con i suoi siti archeologici, i suoi osservatori astronomici che approfittano dell’altitudine e del cielo quasi sempre scoperto e limpido. Poi diventava un film più ricco e complesso quando si scopriva che in una vecchia miniera di salnitro Pinochet aveva installato un campo di concentramento per prigionieri politici. E che ci sono delle donne, mogli o parenti, che continuano a cercare i resti dei prigionieri uccisi, polverizzati e seminati qua e là nel deserto da un regime che voleva coprire le sue tracce. La ricerca di frammenti di ossa dei propri cari, di civiltà precolombiane, di segnali provenienti da stelle morte parecchi anni luce fa, si fondevano in un’opera che era insieme filosofica e commovente. Ho paura che nel nuovo film Guzmán si ripeta un pochino: ambientato nell’arcipelago della Patagonia, sembra un remake acquoso di Nostalgia de la luz.
Detto questo, Joshua Oppenheimer è riuscito a girare due documentari sullo stesso tema, il genocidio indonesiano degli anni 1964-1965, che erano uno più sconvolgente dell’altro. Dunque, aspetto con fiducia; quello di Guzmán è, per me, il film più atteso dell’intero festival.
45 years (45 anni)
di Andrew Haigh
Come Brokeback Mountain o La vita di Adele, Week-end, la precedente pellicola di questo regista britannico, non era un film sull’amore omosessuale. Era semplicemente un film sull’amore, incentrato su un incontro casuale tra due uomini in un bar gay di Nottingham che, nell’arco di sole 48 ore, diventa qualcosa di più serio. Parlava della difficoltà di impegnarsi in un rapporto quando hai paura di essere ferito, parlava di come questa mancanza d’impegno può ferire a sua volta. Era un film delicato, girato e montato con grande sensibilità da un regista che ha cominciato la sua carriera facendo l’assistente al montaggio di grossi film come Il gladiatore. Il nuovo film di Haigh racconta la storia di una coppia eterosessuale avanti con gli anni, interpretata da Charlotte Rampling e Tom Courtenay. E di una lettera dal passato che, alla vigilia del loro 45esimo anniversario di matrimonio, sconvolge tutto.
Pod electricheskimi oblakami (Sotto le nuvole elettriche)
di Aleksey German Jr
Qualcuno si ricorderà di Paper soldier, che ha vinto il Leone d’argento per la migliore regia a Venezia nel 2008. Non posso dire di averlo capito tutto, ma quel film satirico-onirico su dei cosmonauti in una base sovietica sperduta nel 1961 era comunque qualcosa di diverso, denso e disincantato come un romanzo di Gogol o Goncharov. German – il cui padre omonimo, regista anche lui, è morto nel 2013 – ci riprova con un film sull’anima della Russia contemporanea. “In sette episodi”, recita il catalogo del Berlinale, “il regista distilla lo stato spirituale del suo paese in un film fatto di lunghi piani sequenza, una danza fluida fra attori e macchina da presa”. Già prima di aver visto il film noto un piccolo miracolo che forse promette bene: è una coproduzione tra Russia e Ucraina, insieme alla Polonia.
Il festival apre giovedì 5 febbraio con il film polare (nel senso che è ambientato in Groenlandia) Nobody wants the night della regista spagnola Isabel Coixet con Juliette Binoche, Rinko Kikuchi e Gabriel Byrne. Sarà nella grande tradizione dei film d’apertura, cioè un melò indigesto? Qualche critico cattivo andrà a pescare dal trailer la battuta “nessuno verrà” per usarla nella sua recensione? Staremo a vedere. A tra poco, su questi schermi.
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