Il più delle volte, alla domanda “Perché avete fatto questo film?”, la risposta vera è: “Perché abbiamo trovato i soldi per farlo”. Finora, nei primi due giorni e mezzo del sessantacinquesimo festival di Berlino, solo un titolo non si riduce, alla fine, al prodotto fatto più o meno bene di un sistema narrativo-industriale: Taxi di Jafar Panahi.

Una scena di Taxi di Jafar Panahi.

Nel dicembre 2010, dopo nove mesi di reclusione, il regista iraniano di film come Il palloncino bianco (1995) e Offside (2006) è stato condannato da una corte di Teheran alla pena di sei anni di prigione con il divieto di fare film per un periodo di vent’anni. Da allora, Panahi è riuscito a fare due film mentre si trovava agli arresti domiciliari: This is not a film, una specie di meta-documentario in cui usa le parole per descrivere le scene del film che era a metà lavorazione quando è stato arrestato; e il pirandelliano Pardé (Closed Curtain), in concorso a Berlino due anni fa.

Entrambi erano opere importanti e ammirevoli che nascevano da quello che era anche il loro tema: la resistenza creativa. Ma forse nessuno dei due era un grande film. Taxi lo è. Perché riesce finalmente a conciliare il tema della creatività che sfugge sempre, necessariamente, alla censura, con quell’analisi acuta della società iraniana che ha caratterizzato, fino al momento dell’arresto, il cinema di Panahi (un titolo per tutti: Crimson gold, per me il suo film più bello).

In Taxi lo stesso Panahi fa il tassista, con una videocamera girevole montata sul cruscotto che gli consente di filmare la strada davanti o i passeggeri dietro. I primi due sono un tipo becero, litigioso, e un’insegnante, che cominciano un acceso dibattito sulla necessità (sostenuta da lui) di impiccare dei ladruncoli ogni tanto per “mandare un messaggio”.

Sarebbero semplici simboli della lotta ancora in corso in Iran fra proletariato islamico e intellighenzia liberale se non fossero così autentici. Quando escono, però, spunta fuori il terzo passeggero, fino a quel momento silenzioso, che riconosce Panahi e fiuta il trucco del film clandestino in lavorazione. Pensa anche di riconoscere, nell’ultima battuta dell’uomo del popolo, una citazione di Crimson Gold.

L’omino è un venditore di dvd illegali (“Vuoi Walking dead stagione 5? Ti posso procurare perfino il girato giornaliero dei film in lavorazione”) che non fa la differenza fra Big Bang Theory e film “artistici” come l’ultimo di “Kim Du… sai, quel regista coreano”. Per lui, sono tutti prodotti che hanno un mercato.

Seguono due donne velate che devono portare dei pesciolini rossi alla Fontana di Alì, poi Panahi deve andare a prendere dalla scuola una nipotina che è una vera signorina: gli rimprovera il ritardo senza mezzi termini, dice che vuole un frappuccino e comincia a elencare delle regole dettate dalla maestra per un film che deve fare per un progetto in classe, le stesse regole che tutti i registi iraniani devono seguire se vogliono avere il permesso ministeriale (la mia preferita è: “I personaggi buoni non possono portare la cravatta”).

Certo, c’è un elemento di forzatura didascalica in qualche punto, come quando il passaggio dato al suo avvocato personale consente a Panahi di raccontare la vicenda di Ghoncheh Ghavami, la ragazza anglo-iraniana arrestata l’anno scorso per essere andata a vedere un incontro di pallavolo. Ma questi inserti non stridono, fanno parte del gioco di un film che è arrabbiato sì, ma con garbo e umorismo, come viene fuori dal bellissimo finale – che si attiene perfettamente a una delle regole dei film iraniani ideologicamente corretti.

Devo correre a vedere un altro film – Life, di Anton Corbijn, sull’amicizia fra James Dean (Dane DeHaan) e il fotografo di Life Magazine, Dennis Stock (l’onnipresente Robert Pattinson) – ma vi lascio con due recensioni in pillola.

In 45 years di Andrew Leigh, Charlotte Rampling è formidabile nel ruolo di una donna che vede un matrimonio di quarantacinque anni sgretolarsi davanti ai suoi occhi per colpa di quella che, all’inizio, sembra solo una piccola crepa: il ritrovamento del corpo della prima fidanzata del marito, morta in un’incidente nelle Alpi quasi mezzo secolo prima.

E Queen of the desert di Werner Herzog non è né terribilmente brutto, né terribilmente bello: è un film epico di vecchio stampo sull’esploratrice inglese Gertrude Bell, interpretato da una Nicole Kidman forse fin troppo raggiante (Bell non era certo una modella). È un film romantico al punto giusto, femminista al punto giusto, anticolonialista al punto giusto, senza però evitare i cliché di quella visione decadente del mondo ottomano-arabo che Edward Said ha infilzato in modo così acuto nel suo libro del 1978, Orientalismo. È un film che, alla domanda “Perché avete fatto questo film?”, risponde: “Perché abbiamo trovato i soldi per farlo”.

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