A volte le giurie fanno la cosa giusta. Certo, quella della Berlinale di quest’anno, presieduta da Darren Aronofsky, forse avrebbe potuto mescolare diversamente i premi assegnati. Personalmente avrei invertito il premio per Taxi di Jafar Panahi, che ha vinto l’Orso d’oro per il migliore film, con quello di El club di Pablo Larraín, che si è aggiudicato invece il Gran premio della giuria.
Ma complessivamente, la giuria ha premiato tutti i film che avevano qualcosa di speciale, qualcosa che li mettesse un po’ sopra il livello di una storia raccontata bene. Per farlo – in un’annata particolarmente forte – due premi sono stati assegnati ex aequo. Quello per la miglior regia è andato al rumeno Radu Jude (per il film Aferim!) e alla polacca Małgorzata Szumowska (per Body). Mentre quello per il miglior contributo tecnico è stato diviso fra ben tre direttori della fotografia, i due del film russo Sotto le nuvole elettriche e Sturla Brandth Grøvlen, il giovane norvegese che ha fotografato il film tedesco Victoria.
Premio meritato, quest’ultimo, anche solo come riconoscimento della forma fisica diBrandth Grøvlen. Victoria è un film girato in un unico piano sequenza di due ore e dieci minuti. E non è tutto ambientato in una stanza. I personaggi sono quasi sempre in movimento, c’è una rapina in banca e perfino una sparatoria. Il direttore della fotografia doveva correre, salire e scendere le scale, saltare su una moto, buttarsi a terra con i soggetti che filmava, tutto senza soluzione di continuità. È un film che ho ammirato più che amato, ma uno su due non è male.
Ho già scritto sull’Orso d’oro, Taxi, il piccolo film coraggioso di Jafar Panahi che con spirito, verve e maestria tecnica ci ha ricordato in soli 82 minuti che il cinema, oltre a farci ridere e piangere, può anche essere uno strumento molto potente di resistenza creativa e civile. Nel presentare il premio, Aronofsky l’ha motivato dicendo che con il suo nuovo film, Panahi, che da quasi quattro anni è agli arresti domiciliari e ha il divieto di fare film per vent’anni, “ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film sprizza passione per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico”. Parole sacrosante. A incoronare l’emozione del momento ci ha pensato Hana Saiedi, la piccola nipote di Panahi, nonché attrice del film, che ha accettato il premio in nome dello zio prima di scoppiare in lacrime.
I due film premiati con la miglior regia – Body e Aferim! – dimostrano la vitalità del cinema dell’Europa dell’est. Il primo è una strana commistione tra dramma familiare, storia di fantasmi e commedia disincantata sulla propensione degli umani a correggere la realtà, a piegarla al nostro desiderio di come il mondo dovrebbe apparire. Lo fa la giovane anoressica al centro del film, alla ricerca di un corpo “purificato”; lo fa la sua terapista, figura goffa di zitella repressa, piuttosto brava a curare queste ragazze scheletriche con la psicoterapia, ma purtroppo afflitta anche lei dall’illusione – nata dopo il trauma della perdita del figlio – di saper comunicare con il mondo degli spiriti. Aferim! invece è un western storico, ambientato nella Romania del primo ottocento, che con la storia della cattura di uno schiavo rom fuggito dal suo padrone, dimostra quanto possano essere lontane le radici del razzismo odierno.
Personalmente avrei dato qualcosa in più del premio ex aequo per la migliore cinematografia a Sotto le nuvole elettriche di Alexej German Jr. Il film è un affresco tetro e disincantato della nuova Russia di Putin. Poetico, letterario, intellettuale in modo impenitente, è un film per il quale bisogna alzare il livello del pretenziometro personale al massimo, ma fatto questo, diventa un pezzo di grande cinema, quasi un capolavoro. Per me era il film più ricco e originale visto in concorso: cinema allo stato puro.
Come dramma, invece, El club del regista cileno Paolo Larraín, vincitore del Gran premio della giuria, ha sbaragliato tutti i concorrenti. Per i giornalisti era “il film sui preti pedofili”. Ma a parte il fatto che non tutti gli ex preti al centro della storia, sospesi a divinis e nascosti dal Vaticano in una casa sul mare sulla costa cilena, rientrano in questa categoria, comunque non bisogna pensare a un pesante atto d’accusa unidirezionale in stile Magdalene di Peter Mullan. El club è un film molto più fine, un thriller sottosopra in quanto, un po’ come la religione che inquadra, comincia dalla morte violenta di un uomo e finisce, dopo un periodo burrascoso di ricerca della verità, con un patto di convivenza tra riformatori e vecchia guardia.
A Berlino quest’anno ha debuttato, poi, un nuovo talento del cinema italiano: Laura Bispuri, romana classe 1977. Il suo film di esordio, Vergine giurata, è la storia intensa di una ragazza che vive in una zona remota e montagnosa tra Albania e Kosovo. Qui le ragazze sono costrette a sposarsi in giovane età. Hana si ribella nell’unico modo concesso, a parte la fuga: si fa vergine giurata, rinuncia al sesso per sempre e comincia a vivere e a vestirsi come un uomo. Qualche anno dopo va a trovare la sorellastra che vive in una città italiana. Qui il ghiaccio della sua assunta mascolinità comincia a sciogliersi lentamente.
Il film non ha quella marcia in più di cui sopra, che gli avrebbe forse fruttato un premio. Ma è una storia drammaticamente efficace, raccontata abbastanza bene, nonostante qualche passaggio un po’ forzato. Forse ultimamente Alba Rohrwacher è troppo esposta, ma qui è brava come sempre nel ruolo di Hana. A me è piaciuta soprattutto la gestione degli spazi aperti e di quelli chiusi, come le montagne incombenti della prima parte o la piscina echeggiante dove Hana accompagna la nipote quando va a fare nuoto sincronizzato. È un film sul corpo della donna fasciato fisicamente o psicologicamente, costretto (nel nuoto sincronizzato) in posizioni innaturali, che sono comunque realizzate con grinta da una ragazza libera di esprimersi come vuole, come Hana non lo era alla sua età.
Ultima considerazione. Non auguro a nessuno un divieto di fare nuovi film per un periodo di vent’anni, com’è successo a Jafar Pahani in Iran. Ma se fossi costretto a nominare dei candidati per una pausa che gioverebbe sicuramente al pubblico, e forse anche al regista, proporrei Terrence Malick e Peter Greenaway. Knight of cups era banale, Eisenstein in Guanajuato addirittura offensivo. Fatevi da parte per un po’, vi prego: è ora di mandare in scena le nuove leve.
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