Basta guardare una foto per capire quanto sia stato famoso il regista Samuel Khachikian nell’Iran del decennio tra il 1955 e il 1965, quando il paese islamico raggiunse l’apice del processo di occidentalizzazione avviato dallo scià, Mohammad Reza Pahlavi. È il 1958. Nella foto, una folla ha invaso un’intera strada del centro di Teheran, bloccando il traffico, nel tentativo di assistere all’anteprima dell’ultimo film di Khachikian, intitolato (ironicamente, per le circostanze) Toofan dar shahr-e ma – Tempesta nella nostra città.

Khachikian ha firmato 37 lungometraggi in una carriera durata più di quarant’anni. Ma è morto povero e amareggiato, nel 2001, senza aver mai potuto visitare l’Armenia, il paese d’origine dei suoi genitori, che sono fuggiti in Iran durante l’eccidio ottomano iniziato nel 1915.

Tra noir americano e pulp fiction
Il cinema ritrovato, il festival di Bologna dedicato alla storia del cinema, ai film rari, restaurati e riscoperti, ci regala una breve retrospettiva delle opere del regista iraniano nella sua edizione 2017 (24 giugno - 2 luglio). Breve (sono solo quattro film) un po’ perché la rassegna Teheran noir presenta i thriller di Khachikian, un filone minoritario nell’opera di un regista che ha girato soprattutto melodrammi. Ma breve anche per la difficoltà a convincere l’Archivio cinematografico nazionale di Teheran a spedire i film di un regista ancora troppo identificato con anni e atteggiamenti considerati “decadenti” dalle autorità iraniane, nonostante abbia girato anche delle pellicole propagandistiche per il regime dopo la rivoluzione islamica del 1979.

La folla a Teheran per l’anteprima di Toofan dar shahr-e ma, 1958. (Abbas Baharloo)

A rivelarlo è Ehsan Khoshbakht, critico, architetto e uno dei curatori della rassegna: “Ho scambiato tantissime email con Teheran”, mi ha detto al telefono da Londra scherzando che “avere questi quattro film è stato un po’ come negoziare un accordo nucleare”.

Qualcuno ha bollato Khachikian come l’Hitchcock iraniano, ma è un paragone approssimativo. In realtà i thriller del regista nato a Tabriz nel 1923 devono molto di più alla tradizione del noir americano degli anni quaranta e ai romanzi usa e getta di pulp fiction poliziesco da cui derivava. Sono film in cui girano delle femmes fatales con acconciature beehive, vestite in gonne attilate, in cui teppisti con la giacca di pelle si sfidano nel gioco del coltello in night dove gli avventori scolano fiumi di whisky, mentre guardano ballerine sexy che ancheggiano svogliatamente.

Sogni, ansie e costumi locali
Sarebbe più giusto tentare un accostamento tra Khachikian a Jean-Pierre Melville, il regista francese di Bob le flambeur o Le cercle rouge. Tutti e due erano riusciti a fondare uno studio in proprio per non sottostare ai produttori esterni (curiosamente, entrambi gli studi sono finiti distrutti in due diversi incendi). Ma più che altro, sia Khachikian sia Melville hanno attinto a un genere americano per creare opere che non erano delle semplici americanate, ma che convogliavano sogni, ansie e costumi locali, nonché alcune spinte biografiche dei due registi.

Nei cupi malviventi di Melville, nei loro tradimenti e il loro fatalismo, c’è l’ombra delle esperienze del regista nella resistenza francese. E nel moto perpetuo dei personaggi nei thriller di Khachikian, un moto perpetuo costellato da esplosioni di violenza, covano, forse, le storie dell’esodo armeno raccontato dal padre del regista a suo figlio – è il regista stesso a citare questa influenza in un’intervista rilasciata al suo biografo nei primi anni novanta.

Sia Melville sia Khachikian, poi, erano considerati come dei padri fondatori dai registi della nouvelle vague. Khoshbakht mi racconta una conversazione avuta un paio di anni fa con quello che definisce l’Antonioni iraniano, Ebrahim Golestan, ospite al Cinema ritrovato di Bologna l’anno scorso (oggi ha 94 anni e vive a sud di Londra). “Chissà perché nessuno parla mai di Khachikian?”, aveva chiesto Golestan a un certo punto. “Era un grande regista”.

Zarbat, 1964.

A giudicare dai due film che ho potuto vedere interamente prima dell’apertura del festival, Delhoreh (Ansia, 1962) e Zarbat (Colpo, 1964), l’autodidatta Khachikian era, a tratti, un maestro di stile: i film sono ricchi di sequenze ardite, per esempio con la cinepresa messa sotto un tavolino di vetro, o sbirciando attraverso una lattina aperta ai due lati, o con inquadrature strambe, sbilanciate. In questo senso guardano anche indietro, a un espressionismo di stampo tedesco. In Zarbat, ci sono momenti che sembrano usciti da L’ultima risata di Murnau, in cui si mescolano formalismo estremo e melodramma strappalacrime.

Due film, due case. Quella di Zarbat è un palazzo fatiscente abitato dalla famiglia di Jamal, un impiegato esaurito dal lavoro, logorato dalla malattia della moglie che gli costa un patrimonio in medicine, dal padrone di casa che esige gli arretrati dell’affitto. Jamal si rintana nella mansarda circondato dai fascicoli del lavoro che porta a casa; al primo piano vive la moglie sofferente costretta a letto; sotto, una cantina cupa, che dovrebbe riscaldare la casa (lì c’è la caldaia) ma che invece diventerà un teatro di orrori.

Donne indipendenti e mobili
In Delhoreh è il marito, un ricco industriale, che occupa il piano terra di una bella casa moderna, dove porta lo smoking e si destreggia con i cocktail (l’attore, Abdollah Boutimar, era una specie di Mastroianni iraniano). Questa casa chic potrebbe benissimo essere una di quelle progettate dagli architetti italiani che andavano di moda nella Teheran degli anni cinquanta e sessanta (anche Giò Ponti ci ha lavorato). La moglie seducente e intelligente, invece, appare sempre dal piano alto, scende le scale, saluta il marito, esce. Non riesce a fermarsi neanche a una festa di beneficenza dell’alta società iraniana che dovrebbe presiedere; viene trascinata invece verso un quartiere povero ma vivo, eccitante – proprio come Lidia, il personaggio di Jeanne Moreau in La notte di Antonioni.

In Zarbat, è la bella figlia proletaria di Jamal a varcare i confini sociali, andando a trovare un’amica ricca in un’altra di quelle ville dell’alta borghesia, dove la sorella adolescente dell’amica indossa i pantaloni e gira in continuazione su una bici, mai ferma. Certo, anche gli uomini si spostano in questi due film ma sembrano più ingessati, costretti (perfino i malviventi) nel triangolo lavoro-casa-bar.

A sinistra: Jahannam-e safid, 1968; a destra: Chahar rah-e havades, 1955.

A guardare un fotogramma di un altro film di Khachikian, Jahannam-e safid (Inferno bianco, 1968), questo interesse per le donne indipendenti e mobili non era limitato a Delhoreh e Zarbat. Khoshbakht lo conferma in un articolo da poco uscito sul mensile britannico di cinema Sight & Sound: “Nel suo remake di Sabrina, Hengameh (1968), due sorelle si contendono un uomo (nell’originale, erano due fratelli a gareggiare per l’amore di una donna). Questo approccio quasi femminista si evince anche in uno dei suoi ultimi film di successo, Koda-hafez Tehran (Arrivederci Teheran, 1966), in cui un’infermiera affronta i banditi imbracciando una mitra”.

Mistero finale
Oggi, Khoshbakht vede l’eredità di Khachikian non tanto in registi come Asghar Farhadi – anche se ne riconosce un’attenzione condivisa per i conflitti sociali – quanto nel giovane Shahram Mokri, premiato a Venezia nel 2013 per Mahi va gorbeh (Pesce e gatto) capace di portare avanti le lezioni del regista iraniano-armeno: “Shahram ammira quella tradizione ed è sempre alla ricerca di modi nuovi di interpretarla: ha una passione per i film di genere di quel periodo, è innamorato di quegli attori e quelle attrici”.

C’è un mistero finale legato alla rassegna bolognese dei film di Khachikian. È la storia di un bacio. Chahar rah-e havades (Incrocio di eventi, 1955), uno dei quattro film che saranno proiettati a Bologna, suscitò scandalo per la scena di un bacio – il primo vero bacio, bocca a bocca, del cinema iraniano. L’attrice, Vida Ghahremani, è stata ostracizzata da amici e parenti dopo l’uscita del film – “sono sempre le donne a essere criticate in questi casi, mai gli uomini”, commenta con amarezza Khoshbakht.

Esiste un fotogramma del bacio. Ma non si vede nella copia arrivata a Bologna. La scena è rimasta vittima di una censura operata dagli archivisti di Teheran? Era già stata tagliata precedentemente, forse in epoca prerivoluzionaria? O è semplicemente andata persa negli anni in un paese dove la conservazione dei film, più che mai quelli commerciali degli anni dello scià, non è mai stata una priorità?

Forse non lo sapremo mai. Ma almeno lo possiamo guardare, quel bacio, pensando ai rovesciamenti dei costumi nel corso della storia. Ma anche al fatto che la storia non va mai in una sola direzione.

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