Mentre prosegue il massacro della guerra in Ucraina, un uomo sembra assaporare una triste vendetta, per non dire una certa felicità, per come sono andate a finire le cose. Ed è l’uomo che ha svolto un ruolo fondamentale nel dare avvio al conflitto nel 2014: Igor Girkin, noto anche come Strelkov.
Poche persone sono più detestate, in Ucraina, di Strelkov (userò il suo appellativo di battaglia, visto che lo preferisce al suo vero nome). Nell’aprile 2014, dopo che il governo provvisorio dell’Ucraina aveva dichiarato che avrebbe inviato le sue truppe per reprimere le rivolte filorusse nell’est del paese, Strelkov era partito dalla Russia con cinquanta uomini, attraversando il confine e causando abbastanza scompiglio da spingere l’esercito russo in un conflitto nel quale inizialmente Putin esitava a entrare. Nel 2014 Strelkov aveva quasi convinto Putin a fare quello che sta facendo adesso, ma non aveva ricevuto alcun attestato di gratitudine dal Cremlino. E aveva finito per essere marginalizzato, diventando – così sembrava – poco più che una rancorosa figura marginale.
All’epoca era opinione diffusa che Putin fosse uno scaltro e moderno uomo forte, più interessato all’autopreservazione e all’arricchimento della sua cricca che a una qualche ideologia. Al contrario Strelkov era un romantico, convinto assertore di un’idea d’impero russo mai davvero esistita al di fuori di una certa letteratura nostalgica e pseudostorica. Putin ha intrapreso una carriera burocratica, poi politica, consolidando il suo potere, mentre Strelkov si dedicava per hobby alla ricostruzione di battaglie storiche e combatteva volontario in Transnistria e nell’ex Jugoslavia. Nel 2022, tuttavia, Putin appare così infatuato dalla storia da non riuscire praticamente a parlare d’altro. Ha finito in buona parte per allinearsi alla visione del mondo di Strelkov, abbandonando il suo cinismo e il suo pragmatismo in favore di una sorta d’idealismo omicida.
La scelta tra due sedie
“Ho scritto più di una volta che il presidente è ‘seduto su due sedie che si stanno gradualmente allontanando sotto le sue chiappe’”, ha scritto recentemente Strelkov sul suo canale Telegram. “Le due sedie stanno per l’ideologia patriottica statale, rappresentata dall’insieme dei funzionari civili e militari, e un modello d’economia ‘liberal-oligarchica’. Il suo umile servitore ha inoltre avvertito il presidente russo che, per quanto possa essere stato comodo rimanere seduto così prima degli eventi di Crimea, adesso la cosa non è più possibile. Se Putin non vorrà cadere in mezzo alle due sedie, dovrà sceglierne una. E oggi – incredibilmente tardi, ma così sono andate le cose – la scelta è stata fatta”.
Effettivamente Putin sembra ormai pochissimo interessato all’economia aperta che ha difeso per i primi 21 anni del suo governo. Sicuramente gli interessano poco le fortune dei russi più facoltosi, o gli effetti delle sanzioni senza precedenti dell’occidente contro tutti i russi, dai suoi amici più intimi ai milioni di lavoratori ordinari. Non ascolta più i “liberali sistemici” a lui vicini, artefici della relativa prosperità petrolifera della Russia e che hanno alimentato il sostegno popolare a Putin. La recente e improvvisa emigrazione di uno di loro, Anatolij Čubajs, un uomo al quale il presidente russo deve buona parte della sua ascesa, è un segnale che quel gruppo non ha più un posto nel sistema di potere di Putin.
Strelkov era rapidamente assurto al grado di “ministro della difesa” dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk
Questa metamorfosi rende le affermazioni di Strelkov uno strumento per immaginare quel che potrebbe fare Putin in futuro, mentre continua il suo viaggio spirituale e intellettuale verso i folli territori di confine che Strelkov abita da sempre: un viaggio che finisce quando i due uomini diventano indistinguibili l’uno dall’altro.
Quando il ristretto numero di combattenti di Strelkov, apparentemente finanziato dal ricco nazionalista Konstantin Malofeev, aveva preso il controllo della città ucraina di Slavyansk nel 2014, era diventato una calamita per separatisti locali, volontari russi di idee affini e combattenti senza uniforme attivi come mercenari. Strelkov era rapidamente assurto al grado di “ministro della difesa” dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk, mettendosi a capo di una nutrita e raffazzonata forza militare.
Quando l’esercito ucraino regolare aveva risposto attaccando i combattenti di Strelkov, i russi avevano fatto ricorso alla tattica usata dagli ucraini nell’attuale conflitto: avevano guidato l’esercito ribelle nella città di Donetsk, dove il combattimento urbano strada per strada sarebbe stato troppo pesante per gli ucraini. E in seguito Putin aveva inviato, a malincuore, le truppe russe per sostenere i separatisti: la loro sconfitta, infatti, avrebbe minato l’euforia popolare che dopo l’annessione della Crimea, nel febbraio 2014, gli aveva regalato i più alti indici di gradimento.
Strelkov, tuttavia, era una figura troppo detestabile per essere sostenuto o anche solo tollerato da Putin. Nell’agosto 2014 era stato rimosso dal suo incarico di “ministro”, quando Vladislav Surkov, consigliere di Putin, era diventato il “curatore” della repubblica popolare separatista, con l’indicazione di renderla il più autosufficiente possibile e dunque meno costosa per Mosca. Putin sembrava interessato a minimizzare ogni tipo di costo, compresi quelli di politica estera. Voleva un accordo con l’occidente e ne ha avuto uno nella forma degli accordi di Minsk del 2014 e del 2015, ottenuti con la mediazione di Germania e Francia.
“La più grossa tragedia, per gli abitanti del Donbass, è che i referendum fondanti delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk non sono stati subito accettati dalla Russia, al contrario di quello in Crimea”, aveva detto Strelkov in un’intervista dell’epoca, lamentandosi del fatto che il Cremlino non avesse condiviso il suo entusiasmo per un’ulteriore azione militare. “Non hanno mai pensato che la loro rivolta avrebbe portato a un esito sciagurato come gli accordi di Minsk”.
Minaccia alla sopravvivenza
Otto anni dopo Putin ha rinunciato agli accordi di Minsk e ha riconosciuto le “repubbliche popolari”, come se le richieste di Strelkov fossero giunte solo ora al suo orecchio.
Il tempo trascorso prima di accettare il consiglio di Strelkov sembra oggi danneggiare Vladimir l’invasore. L’ex “ministro della difesa”, per esempio, non avrebbe mai consigliato al dittatore russo di entrare in Ucraina con tanta leggerezza: sapeva infatti, dalle fonti che gli sono rimaste negli staterelli separatisti, che gli ucraini erano molto più preparati a resistere rispetto a otto anni fa. Da qui le sue critiche, spesso sarcastiche, alla pianificazione russa dell’invasione. Rispondendo alle recenti affermazioni dello stato maggiore russo, secondo cui Mosca non avrebbe mai progettato di prendere d’assalto le grandi città ucraine, Strelkov ha scritto: “Sono d’accordo, hanno solo pianificato l’occupazione di Charkiv, Černihiv, Kiev, tutte quante. L’occupazione non ha funzionato come previsto, ma non prevedevano davvero di prenderle d’assalto. E quindi non hanno radunato tutte le forze necessarie”.
Cosa avrebbe fatto di diverso Strelkov? Prima di tutto, avrebbe lasciato perdere la formulazione ufficiale di “operazione militare speciale” e avrebbe cominciato a usare il termine “guerra”. Avrebbe smesso di parlare di “demilitarizzazione e denazificazione”, dichiarando invece una guerra esistenziale all’ultimo sangue. Questo genere di formulazione, secondo il pensiero di Strelkov, avrebbe permesso la mobilitazione delle molto più numerose forze militari necessarie a conquistare e a dominare l’Ucraina. Avrebbe poi smesso di riconoscere ufficialmente il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj e il suo governo in toto, dichiarandoli legittimo obiettivo militare. Strelkov farebbe tutto il necessario per ottenere una vittoria totale, perché l’unica alternativa sarebbe una sconfitta altrettanto totale. Strelkov ha suggerito che Putin sarebbe arrivato alle stesse conclusioni attraverso un percorso, come al solito per il presidente russo, tortuoso. Proprio come è arrivato all’idea dell’inevitabilità dell’invasione di febbraio.
Se c’è una qualche logica nelle recenti azioni di Putin, dopo tutto, è la logica distorta di Strelkov, la logica di “impero o morte”. I due sono ormai affratellati nella loro natura di criminali di guerra: Strelkov è ricercato dalle autorità olandesi per il suo presunto ruolo nell’abbattimento di un aereo passeggeri malese sopra l’Ucraina orientale nel 2014 e Putin difficilmente potrà evitare il processo per crimini di guerra per la distruzione quasi totale di città ucraine come Mariupol e Volnovacha. Se Putin perderà la guerra, anche la relativa sicurezza in cui vive Strelkov a Mosca finirà. Per l’ex “ministro della difesa”, la sconfitta non è una nozione astratta, bensì una minaccia alla sopravvivenza. Lo stesso vale anche per Putin.
Mentre leggevo l’appassionato commento di Strelkov, scritto lontano dal cuore delle azioni militari, ho pensato che avrei dovuto prestare più attenzione ai suoi sproloqui del passato. Avrei dovuto notare il chiaro legame tra le sue idee e la crescente ossessione di Putin per la storia, tra l’insistenza di Strelkov che il nome stesso di Ucraina sia cancellato e sostituito con quello di Malaja Rus – Piccola Russia – e il disprezzo di Putin per gli ucraini come popolo. Se avessi notato quanto le convinzioni dei due uomini si erano avvicinate, non mi sarei sbagliato sulla determinazione di Putin a distruggere due paesi – quello vicino e il suo stesso, che è anche il mio – in nome di una lettura apocrifa della storia. Temo che per il dittatore non sia più possibile fare marcia indietro: deve andare dove Strelkov lo ha aspettato per tutti questi anni. E anche se lungo questo cammino sembrano esserci alcune vittorie, è una strada che porta verso la più amara delle sconfitte.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su Bloomberg.
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