Tra le moltissime persone intercettate, il mio nome non compare. E nella moltitudine di quanti hanno intrattenuto rapporti con Salvatore Buzzi e che ora se la danno a gambe levate o nicchiano, negano vigorosamente o glissano, io non risulto. Ma se c’è qualcosa da confessare, eccomi qua.
Anch’io ho parlato al telefono col presidente della cooperativa 29 giugno. Sarà stato tre anni fa, quando non ero parlamentare e non ricoprivo alcuna carica pubblica. Gli chiesi di esaminare il curriculum e di incontrare un giovane uomo in grave difficoltà per un’eventuale collaborazione a una delle cooperative da lui dirette. Dopo alcuni giorni, mi rivolsi esattamente negli stessi termini (invio di un cv e richiesta di un colloquio) a un dirigente della cooperativa La Cascina, associata alla Compagnia delle opere. Nell’un caso come nell’altro non se ne fece nulla: prova inconfutabile della mia totale irrilevanza.
In quella stessa occasione, appreso che avevamo bisogno di un paio di vasi per la sede della onlus A buon diritto, Buzzi mi disse che avrebbe mandato un giardiniere. Cosa che effettivamente avvenne. E quando gli chiesi – secondo colloquio con lui – quanto dovevo per quel lavoro mi rispose che “non c’era fretta”, o qualcosa del genere.
Successivamente, e siamo già nel 2014, esponenti di A buon diritto, in un paio di occasioni, hanno chiesto a Buzzi la disponibilità ad accogliere nei centri da lui organizzati alcuni stranieri usciti dal cie di Ponte Galeria. Infine, lo scorso luglio, lo stesso Buzzi è stato contattato per verificare la possibilità che una delle sue cooperative assumesse due richiedenti asilo, già detenuti. E a novembre, uno dei due è stato effettivamente assunto.
Penso che queste poche informazioni siano sufficienti a spiegare quale fosse il ruolo delle cooperative promosse da Buzzi e le modalità del loro operato legale. Sottolineo legale perché, di quell’altra attività – di natura delinquenziale e di dimensioni assai vaste e ramificate – la gran parte di quanti operano a Roma nell’associazionismo e nella cooperazione, tutto ignoravano. O almeno così credo.
La ignoravano, certamente, le persone che ho conosciuto negli ultimi quindici anni, impegnate sulle tematiche dell’ambientalismo, del verde pubblico e della raccolta differenziata e su quelle dell’accoglienza per stranieri e profughi e del sostegno ai gruppi sociali più vulnerabili.
Ricordo questo perché è forte il rischio che l’immagine di corruzione e di crimine che oggi grava sul lavoro della cooperazione a Roma, e non solo a Roma, finisca col cancellare la realtà concreta delle tante domande disattese di protezione sociale. E, infatti, ciò che si manifesta è un atroce paradosso. La speculazione economica, finalmente emersa, sui destinatari delle politiche di accoglienza e assistenza, tende a occultare la crescente speculazione politica sugli accolti e sugli assistiti. E contro di essi.
Un gioco di specchi, dove le vittime vengono stigmatizzate come responsabili della propria stessa vittimizzazione. E la condizione di immigrato (irregolare e, dunque, di per sé materia penale, secondo questi giureconsulti da strapazzo) diventa corpo di reato. Sarebbe quella stessa condizione, in altre parole, a creare il crimine economico. E non il crimine economico – come è in realtà – a contribuire a creare quella condizione. Non a caso si scrive e si dice: “La truffa degli immigrati”. Espressione che si presta a due possibili letture: la truffa a opera degli, e la truffa ai danni degli. In un clima di generale eccitazione, le due interpretazioni tendono a coincidere. E a slittare rapidamente verso la sintesi più brutale: la truffa c’è in quanto ci sono gli immigrati.
Il dispositivo finale è tanto grossolano quanto micidiale: se eliminiamo gli immigrati (e i rom e i minorenni stranieri non accompagnati e i senza fissa dimora e gli emarginati vari) avremmo molte probabilità di eliminare la speculazione su di essi. Sarebbe un grave errore pensare che si tratti solo di procedure linguistiche e di meccanismi retorici. Sono, invece, strategie discorsive, più o meno consapevoli, che producono senso comune e costruzioni sociali. Ovvero realtà.
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