Un giorno, non lontano nel tempo, ripenseremo a questi giorni di incertezza subito prima del referendum e diremo “ma certo, era ovvio che sarebbe andata così”. La storia, una volta fatta, assume una sorta di piega naturale, come se non ci fosse mai stata davvero alternativa. E le nostre vite non possono che adattarsi.
Penso a questo mentre incrocio lo sguardo di Winston Churchill, più volte, camminando sotto il cielo inquieto di Londra sud. Il volto del vecchio statista che fece la storia del Regno Unito, e di fatto quella dell’Europa libera, domina i cartelli di una campagna per rimanere in Europa – la cosiddetta Bremain, come la chiama qualcuno, in opposizione alla Brexit.
Che le nostre vite dovranno adattarsi è ovvio, anche se l’incertezza riguarda proprio i modi in cui potremo farlo. Parlo anzitutto delle vite degli immigrati europei nel Regno Unito: intorno ai tre milioni di persone, il 5 per cento della popolazione del paese. Duecentosettantamila nuovi arrivi solo nel 2015. Siamo noi immigrati europei la causa principale di questo referendum e saremo tra i primi a pagarne le conseguenze. Da free lance senza un contratto fisso, sono pronto all’idea che restare nel Regno Unito potrà diventare meno facile. Non credo certo che in caso di Brexit ci saranno immediate espulsioni di massa, ma ci sarà un lungo periodo di incertezza burocratica e – ancora più fatale – di incertezza economica.
Mai come in questo referendum, è soprattutto una nebbiosa emotività a decidere questioni di portata epocale
Le conseguenze di un calo dell’economia britannica postBrexit, assieme a conseguenze politiche e sociali, colpiranno ovviamente anche il resto del paese. Gli effetti della Brexit si propagheranno quindi al resto d’Europa. Saranno le vite di tutti gli europei a doversi adattare a un nuovo, sorprendente corso della storia del continente. Sui possibili scenari di un dopo Brexit (contagio nazionalista, domino di ricadute economiche in tutta Europa) si sono letti e sentiti molti allarmi negli ultimi mesi.
Ciò che forse non è stato detto abbastanza è che, anche in caso di vittoria della permanenza in Europa, lo shock di questo referendum non sarà cancellato in fretta. Le nostre vite sono già cambiate. Abbiamo imparato, o avuto conferma, di alcune lezioni amare che non riguardano solo i britannici, ma parlano alla consapevolezza di tutti gli europei.
L’estinzione dei fatti. La prima vittima della campagna per questo referendum sono stati i fatti. Le due parti si sono scambiate una guerriglia di dati continuamente forniti e smentiti. Quanto costa ai contribuenti britannici stare in Europa? Chi sono i prossimi paesi che entreranno nella Ue? Molte volte, sembravano parlare di un fantasioso continente inventato.
I sostenitori della Brexit, in particolare, hanno raccontato ogni sorta di storia: la Turchia sul punto di entrare nella Ue. Bruxelles che, secondo l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, vieterebbe la vendita di banane in mazzi di più di due o tre. Il cancelliere Michael Gove, un altro leader della campagna per l’uscita, ha detto che “la gente in questo paese ne ha avuto abbastanza di sentire esperti”, per sostenere l’inutilità di ascoltare gli economisti contrari alla Brexit.
Nonostante a molti dibattiti fossero invitate organizzazioni che si occupano di verifica dei fatti come Full Fact, le percentuali di elettori che si dichiarano confusi o sprovvisti di sufficienti informazioni per decidere sono rimaste alte. Mai come in questo referendum è stata chiara la natura della società post-fatti in cui vivono le democrazie europee, dove a decidere questioni di portata epocale è soprattutto una nebbiosa emotività.
Il buco nero dell’immigrazione. Non conta che il primo ministro David Cameron abbia partecipato a un dibattito televisivo parlando di Churchill e di ideali europei. Non conta che ci si scontrasse su numeri e fatti di ogni tipo. Le domande del pubblico e il focus di ogni dibattito tornavano ossessivamente a un unico punto: l’immigrazione. L’afflusso libero e incontrollabile di immigrati europei nel paese è stato il buco nero di ogni discussione sul referendum, l’argomento che assorbiva vorace ogni altro. L’unico che sia arrivato con forza agli elettori.
Anche su questo, si è assistito a un miscuglio di realtà e percezioni emotive. La paranoia dell’Inghilterra rurale verso l’invasione straniera, perfino in zone dove l’impatto dell’immigrazione è minimo, si è mescolata alle inquietudini più concrete delle città costiere e dell’Inghilterra del nord. I lavoratori immigrati europei – soprattutto dall’Europa dell’est, ma anche quelli dall’Europa del sud – sono accusati di causare un abbassamento dei salari minimi e mettere sotto pressione i servizi pubblici come scuole e sanità.
È l’ennesima lezione per le sinistre europee: senza affrontare gli aspetti problematici delle migrazioni lasciano il terreno alle destre nazionaliste
Il paese si sente affollato. Un esempio del complicato incastro tra economia, condizioni di vita e paura dell’invasione è l’accusa rivolta agli immigrati di causare la crisi immobiliare, aumentando la domanda di abitazioni e spingendo in alto i prezzi delle case. In realtà, la domanda è alta per le speculazioni degli investitori immobiliari, e perché il credito bancario negli ultimi anni è stato economico e facile da ottenere. In caso di Brexit e di svalutazione della sterlina, il credito diventerà meno accessibile: per paradosso, le case potrebbero calare di prezzo ma diventare più difficili da comprare. Tutto questo a prescindere dagli immigrati.
La sconfitta della politica. I grandi sconfitti di questo referendum resteranno i due partiti maggiori. Nel caso dei tory, il referendum li ha divisi violentemente in due fazioni, aprendo una terrificante lotta di potere all’interno del partito. Più in profondità, il referendum ha rivelato gli effetti controversi delle politiche economiche del governo: considerare gli immigrati come carburante per accelerare la turbina dell’economia, senza curarsi dell’impatto sociale dell’immigrazione. Tagliare i servizi, impoverire le classi più deboli con politiche di austerità, per poi stupirsi se quelle classi trovano un classico capro espiatorio – l’immigrazione.
Nel caso dei laburisti, il referendum è stato un’occasione persa. Fino a un paio di settimane fa il partito di Jeremy Corbyn ha mantenuto una posizione confusa: molti elettori laburisti neppure sapevano quale fosse la posizione del partito. Quando il Labour ha cominciato una campagna più decisa per la permanenza in Europa, lo ha fatto in modo poco efficace, appellandosi a generiche questioni di appartenenza europea. Come la maggior parte delle sinistre europee, il Labour vive un imbarazzo profondo: non sa rispondere alle inquietudini degli elettori di fronte al tema dell’immigrazione.
Nel suo ultimo articolo pubblicato, Jo Cox – la parlamentare uccisa il 16 giugno da un fanatico di estrema destra – aveva scritto che l’immigrazione arricchisce la società britannica, ma che è importante riconoscere il suo impatto, a volte problematico, sulla vita delle comunità. Per questo, aveva scritto, la ricchezza generata dal lavoro degli immigrati europei dovrebbe tornare in parte alle comunità in cui essi ora vivono, per finanziare i servizi pubblici. Un approccio semplice ma non comune tra i laburisti.
L’ago della bilancia nel dibattito referendario è rimasto allo scontro tra due fazioni di conservatori, nonostante la posta in gioco fossero soprattutto le inquietudini delle classi più deboli. Offrire risposte alternative a quelle inquietudini era il compito dei laburisti. È l’ennesima lezione per le sinistre di tutta Europa, che senza la capacità di affrontare gli aspetti problematici delle immigrazioni continuano a lasciare terreno alle destre nazionaliste.
La globalizzazione rimane la madre di tutti gli shock. Infine, questo è solo in apparenza un referendum sull’Europa. Nella sua anima è un referendum sulla globalizzazione e i suoi effetti contraddittori; sulla libera circolazione delle persone e sulle migrazioni; sulla paura di fronte a sfide sovranazionali in cui molti cittadini si sentono la parte più a rischio. Gli europeisti insistono che il Regno Unito manterrà più influenza nel mondo restando nella Ue, ma questo sembra interessare poco agli elettori favorevoli alla Brexit.
In fondo, è il vecchio sogno di un’isola che si immagina indipendente, solitaria, circondata da un mare che la protegga dai tumulti del continente e del mondo: recessioni, profughi e disastri vari. Se la globalizzazione è una fonte continua di shock, si risponde con controshock ancora più devastanti, come sarebbe la Brexit. Riprendere in questo modo il controllo dei propri confini e della propria storia, separata da quella degli altri: un’illusione miope ma fatalmente allettante.
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