Gli altoforni delle acciaierie di Taranto saranno spenti per ordine della magistratura? E lo stato, che ha appena ripreso il controllo dell’Ilva attraverso la neonata azienda Acciaierie d’Italia, ha una strategia per farne un’industria compatibile con la salute della città e di chi ci abita e di chi ci lavora? Sono domande che aspettano risposta dopo la sentenza della corte d’assise di Taranto che il 31 maggio ha condannato per “disastro ambientale” chi ha gestito l’Ilva tra il 1995 e il 2013.
Una condanna netta per Fabio e Nicola Riva, allora proprietari e amministratori, per i loro fiduciari (una sorta di “governo ombra” che controllava lo stabilimento per conto della proprietà) e per i responsabili della gestione aziendale. È stato condannato anche l’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola, benché la sua amministrazione sia stata la prima a varare leggi ambientali che tentavano di mettere dei limiti alle emissioni dello stabilimento siderurgico.
La vicenda giudiziaria non è finita, ma la sentenza riconosce finalmente la sofferenza di chi ha dovuto convivere con uno stabilimento grande due volte la città stessa: il complesso industriale che in mezzo secolo ha fatto di Taranto una delle città più benestanti dell’Italia meridionale, ma di gran lunga la più inquinata e pericolosa per la salute di chi ci abita. Rende giustizia di quanto denunciavano da anni tecnici, medici, ambientalisti, alcuni amministratori locali: che l’acciaieria ha disperso e continua a disperdere metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, diossine, policlorobifenili (Pcb), un intero inventario di sostanze tossiche che hanno lasciato un segno visibile nella salute delle persone.
La gestione Riva
La famiglia Riva – i “re dell’acciaio” – aveva acquisito lo stabilimento dall’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) nell’era delle privatizzazioni, durante i primi anni novanta. Per 18 anni l’ha gestito con grande successo, in termini di produzione e profitti, ma in spregio alle prescrizioni ambientali via via indicate dagli enti di controllo (instaurando anche un sistema intimidatorio nelle relazioni di lavoro, ma per questo erano già stati condannati). Erano riusciti a eludere ordinanze amministrative e ignorare perfino le condanne dei tribunali (nel 2005 e 2007, sempre per le emissioni nocive): tali erano le protezioni che i governi nazionali avevano alzato intorno all’Ilva.
Finché nel luglio del 2012 un giudice ha ordinato il sequestro dell’area “a caldo” dell’impianto, cioè gli altoforni, ovvero il cuore dell’acciaieria. È allora che l’Ilva è diventata un caso di portata nazionale non solo per i risvolti giudiziari ma anche per quelli politici, sociali, ambientali, di politica industriale.
A Taranto è stato processato “un modo di produrre acciaio che si è fatto sistema impenetrabile, accettando come conseguenza il disastro ambientale”, scriveva Alessandro Leogrande. Ora quella sentenza condanna un’idea dello sviluppo industriale che precede anche il gruppo Riva: l’idea che la produzione dell’acciaio sia un interesse nazionale tanto “strategico” da giustificare l’inquinamento, la contaminazione massiccia dell’aria, dei terreni e delle falde idriche, l’avvelenamento del cibo, e quindi i malati, i morti, i tumori infantili, come inevitabili danni collaterali.
Il futuro
La domanda però è se la sentenza di Taranto si rifletterà sulle decisioni imminenti per il futuro dello stabilimento. Se la nuova azienda controllata dallo stato cambierà decisamente strada. Perché stabilire fatti e responsabilità del passato è importante, ma Taranto aspetta dei cambiamenti, e anche i lavoratori dell’Ilva aspettano indicazioni.
Il periodo di amministrazione controllata seguito al fallimento dei Riva doveva servire a questo: risanare, avviare la bonifica del territorio, prendere decisioni sulla riconversione dello stabilimento. Invece le bonifiche non sono cominciate, salvo piccoli progetti pilota. Oggi l’inquinamento è meno acuto che nel 2012, certo: perché è calata la produzione industriale. E anche perché sono stati finalmente coperti i “parchi minerari”, i depositi di carbone e di ferro usati negli altoforni, che nelle giornate di vento volavano ovunque e costringevano a chiudere le scuole nel quartiere Tamburi, adiacente allo stabilimento: se ne parlava da trent’anni, doveva essere il primo intervento urgente dell’amministrazione straordinaria, è stato completato solo un anno fa. Troppo poco e troppo tardi per ridare fiducia ai tarantini.
E ora? Nel 2018 la cessione delle acciaierie alla Arcelor-Mittal – la multinazionale che controllava la cordata Am InvestCo Italy – è stata accompagnata da polemiche, non ultimo perché le veniva concessa una lunga impunità rispetto alle violazioni ambientali. Oggi anche questo capitolo sembra chiuso, lo stato riprende il controllo dell’Ilva. In aprile Invitalia, società controllata dal ministero dell’economia e finanze, è entrata nel capitale di Am InvestCo (di cui ora detiene il 38 per cento e il 50 per cento del controllo) per formare la nuova società, Acciaierie d’Italia. La transizione è quasi conclusa, l’amministratore delegato è Franco Bernabè.
La nuova azienda non ha ancora chiarito i suoi progetti. Si parla di “decarbonizzare” lo stabilimento, di nuove tecnologie, di idrogeno verde. Viene da pensare: nel 2014 l’ipotesi di abbandonare il carbone e gli altoforni per adottare il gas fu giudicata “improponibile”. E se fosse stato avviato allora? Le tecnologie per rendere “pulito” l’acciaio in effetti esistono, in Europa molti ci stanno investendo. Ma il futuro di Taranto resta nebuloso. Intanto sullo stabilimento pende la confisca dell’area a caldo (sempre quella!) ordinata dai giudici con la sentenza del 31 maggio, anche se per ora allo stabilimento resta la “facoltà d’uso”. Non è chiaro se e in che modo questo possa modificare gli accordi tra Invitalia e Am InvestCo.
“Temo che ancora una volta le decisioni saranno prese sulla testa dei tarantini”, dice Lunetta Franco, presidente di Legambiente a Taranto, “non sappiamo neppure cosa ci sia scritto di preciso negli accordi tra Invitalia e ArcelorMittal, salvo quanto riassunto nei comunicati stampa”.
La sorte dello stabilimento potrebbe essere decisa da un intervento della magistratura. Questa volta tocca al consiglio di stato, che a giorni dovrà pronunciarsi su una sentenza del tribunale amministrativo regionale (Tar) di Lecce, che nel febbraio del 2021 ha ordinato di spegnere gli impianti dell’area a caldo: sempre quelli, la principale fonte delle emissioni inquinanti che minacciano la salute pubblica. L’ordine del Tar è per il momento sospeso, ma se il consiglio di stato lo riterrà legittimo gli altoforni di Taranto andranno davvero spenti, e potrebbe essere la volta buona. Saranno infine i magistrati a liberare Taranto dal suo mostro?
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