L’altro giorno Ursula LeGuin ha ritirato una medaglia per il suo “Prezioso Contributo alla Letteratura Americana” al 65º National Book Award. Il breve discorso che ha tenuto è notevole per diverse ragioni.

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Lei è una donna deliziosa, un pilastro della fantasy e della fantascienza. Mentre per decenni i “cosiddetti realisti” hanno ritirato tutti i premi, i libri suoi e di autori come Angela Carter o Philip K. Dick hanno costituito un patrimonio fantastico di intelligenza che incarnava l’eredità di George Orwell dagli espositori degli autogrill. La letteratura di genere fa già fatica a tirarsela di suo, e in particolare questa ottantacinquenne californiana è perfetta per un’invettiva contro il sistema editoriale. Soddisfa un prerequisito importante: non fare la figura di una fanatica che si straccia le vesti all’ombra di un Campiello (o dentro l’urne).

Quei foglietti incollati che chiamiamo libri “non sono commodity”, non sono beni indifferenziati come il gas o il mais, dice Ursula LeGuin. È vero. Ma al di là dello strapotere di Amazon e del suo ruolo di capotreno che evidentemente detesta le rotaie, oltre al gasamento zapatista prodotto da questo Davide saggio, sorridente, gentile, democratico, sognante, colto e femminista che le canta a Golia, cosa diavolo sono i libri? È difficile rispondere stando lontani dalle lagne degli scrittori ispirati. Proviamo. La libertà da sola non basta, questo è sicuro: produce troppi romanzi orrendi che è bene non escano dalle migliaia di cassetti dove abitano.

Forse i libri sono un prodotto della libertà che diventa cultura quando incontra i lettori. Gli editori sono quelli che scelgono la libertà di un autore e la rendono appetibile per migliaia di persone, credendo di ricavarci dei soldi. L’editoria quindi è una forma di artigianato industriale culturale e merceologico: un ibrido raro e delicato. Forse per questo il rapporto tra autore ed editore è per sua natura un fidanzamento in regime di separazione dei beni. Mi sarò fatto commuovere da Ursula, ma ho idea che sia anche fisiologico che gli autori difendano la propria autonomia con qualche sfumatura naïf. A questo punto può darsi che Amazon abbia già ragione, e tra pochi anni sembrerò un passatista noioso. Ma per ora posso dire con certezza cosa non è un editore: un editore non è una piattaforma.

Matteo Bordone vive a Milano, ha due gatti e tre acquari, si è laureato in storia del cinema con una tesi sulla Rko, scrive di videogiochi, musica, elettrodomestici e cultura popolare, conduce Mu su Radio2 e lavora in tv di tanto in tanto.

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