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Cos’è. È il settimo capitolo della serie di film dedicati alle macchinone che sgommano nata nel 2001 con Fast and furious. Questa volta il regista non è il taiwanese Justin Lin come nella gran parte dei capitoli precedenti, ma l’australiano di origine malese James Wan. Nel cast ci sono ovviamente anche i protagonisti originali Vin Diesel (Dominic Torretto) e Paul Walker (Brian O’Conner), ma il secondo è morto durante la lavorazione in seguito a un incidente d’auto (la sequenza finale gli rende omaggio). Oltre a loro ci sono Dwayne “The Rock” Johnson, Michelle Rodriguez, Kurt Russell, Jordana Brewster, Tyrese Gibson, Ludacris, Lucas Black e, nel ruolo di cattivo, Jason Statham. Il film racconta la vendetta di Statham, fratello di un cattivo sconfitto precedentemente dalla squadra di Torretto. Nello scontro si inserisce un altro cattivo che ha la faccia da fascinoso signore della guerra di Djimon Hounsou. Nathalie Emmanuel, che qualcuno ricorda come scriba della regina dei draghi nel Trono di spade, è il nuovo acquisto fra i buoni. È facile che, secondo lo schema, nel prossimo film anche Statham si unisca alla causa torrettiana, qualunque essa sia.

Com’è. È un capitolo in cui si gira il mondo, forte dal punto di vista produttivo, carico dei protagonisti che film dopo film si sono aggiunti alla cricca. La famiglia, intesa come valore granitico ma non necessariamente naturale, è sempre il perno intorno a cui ruotano le relazioni tra tutti. L’amore non è passione carnale, ma impegno per la vita, occhi negli occhi, con tanto di frasi storiche; che sia tra coppie (Rodriguez e Diesel) o familiari (The Rock e la figlia), il legame è l’unica cosa che conta oltre alle automobili. Come altri capitoli della serie, e come qualsiasi film di questo tipo, anche Fast & furious 7 è fatto di produzione e di soldi quasi più che di regia. La scena di “assalto alla diligenza” tra le montagne, che si apre con automobili paracadutate da un aereo (paracadutate davvero), è veramente impressionante. Anche la scena che ha per protagonisti i grattacieli di Abu Dhabi dà moltissima soddisfazione, anche se la si è già vista nel trailer. Le scene di lotta corpo a corpo sono molto più lavorate rispetto al passato, e lo stile della regia tende al barocco molto più che nei capitoli precedenti. Per chi non conosce questi film l’affermazione può sembrare ridicola, ma tant’è: esiste un modo più sobrio e uno più manifesto di spendere i soldi e girare un film di azione, sgommate ed esplosioni, anche a parità di investimento.

Perché vederlo. Ci sono tutti, e sono sempre belli. Ci sono un sacco di automobili, ragazze in bikini ovunque, figoni muscolosi buoni come il pane ma pronti a uccidere orde di cattivi senza fare una piega. Ci sono almeno due sequenze letteralmente incredibili, e il tutto scorre come vogliamo, spettacolare e sopra le righe. In un paio di momenti ci si arrende e si smette di cercare di capire come siano state girate le scene: tra mezzi mostruosi, artigianato cinematografico stellare e grafica computerizzata, si sbarrano gli occhi e niente di più. In alcuni momenti poi il film riesce a fare quello che rende irresistibile questa serie, cioè fare l’effetto allegro di quel compagno di classe che prendeva sempre le note ma era il più simpatico: i personaggi sono manigoldi irresistibili, ma anche chi lavora al film e fa saltare le gnocche dal finestrino di un’auto che sgomma ci sembra un ragazzino mai cresciuto che si diverte e le spara grosse. Infine, se siete affezionati a Paul Walker la sequenza di commiato finale vi farà venire il magone, il che è bene.

Perché non vederlo. I pestaggi sono girati in modo poco interessante, e in genere il film intero vive di un rilancio dell’azione e della violenza che ne diluisce la forza. Nell’ottimo Fast & furious 5 lo sfondamento di un tavolino di cristallo era il momento grave di un corpo a corpo; qui si sfondano pareti intere, si mena con le barre di metallo, si va avanti sempre e comunque come se non esistesse il minimo rischio di farsi male. Questo rigonfiamento di tutto porta a una sequenza finale un po’ confusa, di grande impatto ma anche caotica. Il difetto vero del film è una certa leziosità tecnica della regia: c’è troppo virtuosismo, ci sono troppi movimenti di macchina, troppi fotogrammi tolti per avere un effetto ipercinetico nelle risse, insomma un’idea troppo astratta per un film così terreno, pur nell’iperbole delle automobili volanti. Anche le battute, che ruotano attorno al personaggio comico di Tyrese Gibson, questa volta sono un po’ meno efficaci.

Una battuta. Io non ho amici: ho una famiglia.

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