L’industria dei videogiochi per molti aspetti è simile a quella del cinema. In realtà per fare un videogioco ci vuole più tempo di quello che serve per girare un film. Soprattutto da quando molti titoli hanno una ricca sezione online, l’uscita del prodotto sul mercato segna l’inizio di una nuova lavorazione di contenuti aggiuntivi, mentre i cinematografari quando il film è in sala hanno smesso di girare da mesi e hanno passato la palla al marketing.

Ma c’è un aspetto su cui le due strutture produttive si somigliano molto: entrambe sono allergiche agli autori. Concentrare su un autore il peso di un prodotto fatto da centinaia di persone, e costato decine o centinaia di milioni di dollari, non è saggio. Tendenzialmente Hollywood preferisce gli attori, e per le stesse ragioni nei videogiochi si mandano avanti i personaggi. Per fare un esempio, la produzione di Lara Croft è nata nel Regno Unito e poi si è spostata a San Francisco; Toby Gard, che l’ha ideata, ha smesso di seguirla da qualche anno, tanto che negli ultimi Tomb raider l’archeologa è cambiata parecchio. Se il connubio tra Lara e Gard fosse stato indissolubile, la serie si sarebbe probabilmente estinta anni fa.

Una buona parte del fascino dei videogiochi indipendenti, in contrasto con questa modalità industriale, sta proprio nel loro essere opere molto personali di piccole squadre con nomi e cognomi. Ma anche nei blockbuster videoludici qualche volta ci sono autori riconosciuti, un po’ come Steven Spielberg o M. Night Shyamalan al cinema (alcuni fanno anche la fine del secondo, purtroppo per loro).

I dialoghi sono scritti come in una commedia sofisticata e le relazioni tra i personaggi hanno sempre aspetti personali e profondi

Hideo Kojima è nato nel 1963, ma dimostra una quindicina di anni in meno. Tende anche a vestirsi come un ragazzone, tra felpe, giacche sportive e giubbotti di pelle. Nel 1987 è uscito il primo capitolo embrionale della saga che oggi lo ha trasformato in un gigante di popolarità al livello di Shigeru Miyamoto, il padre di Mario. Metal gear è una storia militare antimilitarista: un contesto di spionaggio in cui gruppi e società segrete, che hanno rapporti discutibili con o contro i governi, cercano di espandere il proprio potere e realizzare armi di distruzione di massa.

Il primo Metal gear racconta di Solid Snake, ex berretto verde e punto di forza delle forze speciali Foxhound, e del suo tentativo di distruggere un mezzo corazzato capace di lanciare testate nucleari. Nel capitolo per PlayStation degli anni novanta Solid Snake, clone genetico del proprio nemico Big Boss, deve combattere contro Liquid Snake, suo fratello gemello, che ha preso in mano Foxhound ed è in possesso di una nuova arma letale.

Metal gear solid 2: sons of liberty racconta di un gruppo paramilitare intenzionato a mettere le mani su un deposito di armi, e con queste ribaltare governi e ordine mondiale. Il gioco esce nell’autunno del 2001, e il finale ambientato nella zona del World trade center viene sostituito all’ultimo momento con immagini girate per l’occasione, senza riferimenti agli attacchi dell’11 settembre appena avvenuti. Da qui in poi la storia si complica troppo, spostandosi avanti e indietro negli anni del racconto, perché si possa riassumere qui in uno spazio ragionevole.

Metal gear

Lo stile di Hideo Kojima ricorda quello di Alias e Lost, le serie di J.J. Abrams funestate da una complicazione parossistica di ruoli e trame nascoste: anche lui non fa mai un passo indietro, non semplifica mai, non evita mai un nuovo capovolgimento di fronte o colpo di scena. Kojima però l’ha sempre fatto in un modo a tratti delirante, ma molto efficace. Si può dire che in assoluto, non solo nelle trame, Kojima sia riuscito a coniugare l’assenza assoluta di sobrietà all’eleganza indiscussa: un obiettivo molto difficile da raggiungere in qualsiasi disciplina. Per chiudere tutte le trame, le sottotrame e le identità segrete, alla fine di alcuni capitoli della serie ci sono sequenze cinematiche lunghe come un film.

Quello che fa di Metal gear un capolavoro nel suo insieme è la ricchezza di senso e registri diversi che lo compongono. Ci sono riferimenti al mondo reale e alle istanze di distribuzione del potere economico che sono al centro del dibattito politico in tutto il mondo, dalle ingerenze di società private nella proprietà delle risorse in Africa fino al rapporto tra istituzioni democratiche e lobbismo economico da parte delle corporazioni. Questi stessi temi, slittando dalla contemporaneità a un piano più letterario, respirano anche in un’altra veste nella saga: quella ereditata da tanta letteratura anarchica e libertaria, dalla Fattoria degli animali alla fantascienza distopica e paranoica.

Poi ci sono i dialoghi scritti come in una commedia sofisticata hollywoodiana, e le relazioni tra i personaggi che hanno sempre aspetti personali, profondi e struggenti, qualunque sia il legame che li unisce, siano essi colleghi, amici, fratelli o nemici giurati. Una parte del racconto ha anche a che fare con aspetti metafisici, creature ed energie che non sono di questo mondo e si rifanno alla letteratura fantastica.

Metal gear

Infine c’è l’umorismo di Kojima, che chi frequenta la cultura nipponica riconosce con più facilità, ma che spiazza quasi in ogni situazione. Nel prologo di questo capitolo appena uscito, Metal gear solid V: the phantom pain, si scappa da un ospedale e lo si fa insieme a un altro ricoverato, in realtà un agente sotto copertura che ha il compito di salvarci. Mentre fischiano missili dagli elicotteri, il nostro salvatore ci precede accucciato per diversi minuti di gioco, mentre indossa quei camici allacciati dietro che hanno i ricoverati.

La riga del suo culo, esposta, è davanti ai nostri occhi per metà del prologo: fosse un altro, penseresti che è un peccato che una svista intacchi il clima teso di una fase così vibrante. Ma è Kojima, e queste cose le fa apposta. Per quanto riguarda i riferimenti culturali, non c’è nessuno che come Kojima farcisca le storie di linee che collegano tra di loro temi, personaggi, storie, musica, romanzi anche in modo apparentemente imperscrutabile.

Davanti a un pubblico adorante, Kojima ha raccontato che da anni guarda tre film a notte

Le vicende di Metal gear solid V: the phantom pain sono state anticipate da un breve capitolo antipasto uscito l’anno scorso, Metal gear solid V: ground zeroes, ambientato negli anni settanta. La colonna sonora è La ballata di Sacco e Vanzetti di Ennio Morricone e Joan Baez: una scelta che nessun altro autore di videogiochi al mondo avrebbe fatto. Il protagonista Big Boss in quell’episodio perde un braccio, e nel gioco successivo uscito il 1 settembre sfoggia una protesi avveniristica. Il titolo The phantom pain si riferisce al concetto di phantom limb, arto fantasma.

La falange “pacifista” che Big Boss dirige, determinata a limitare il potere delle superpotenze ai tempi della guerra in Afghanistan (poi ci si sposterà in Sudafrica), si chiama Diamond Dogs, come un disco di David Bowie uscito nel 1974. Oltre a un mare di canzoni provenienti dai ghetto blaster a cassette che i militari tengono accesi mentre sono di vedetta, fioccano ovunque riferimenti a un’altra ossessione di Kojima: Moby Dick, forse la massima riflessione letteraria sul tema del nemico vissuto come ossessione e ragione di vita.

Metal gear è il classico esempo di stealth, cioè un genere in cui si attaccano i nemici di soppiatto, cercando di passare inosservati. Nascosti, accucciati, strisciando a terra, nei panni di Big Boss ci si avvicina alle postazioni dei russi e si svolgono le missioni: meno ci si fa notare, meglio è; se però qualche soldato si accorge di noi, si può passare alle armi da fuoco vere. Ancora una volta è protagonista il più classico strumento di Metal gear, cioè la pistola caricata a tranquillanti.

In questa “puntata” c’è anche, ed è fondamentale, il tema della base, la motherbase dei Diamond Dogs: una piattaforma in mezzo al mare dove si torna in elicottero dopo le fasi di infiltrazione e combattimento. Ogni volta che si tramortisce un nemico o lo si narcotizza sul campo di battaglia, è possibile arruolarlo sulla base, trasportandocelo con dei palloni ascendenti. Si può far volare un po’ di tutto verso la base, anche le pecore afgane, le armi, perfino i container di risorse e materie prime.

Metal gear

Nell’arruolamento del personale e del bestiame, così come nell’ampliamento e miglioramento della base, si vive il senso di gratificazione progressiva che è tipico di molti videogiochi che creano dipendenza. L’altro lato, quello dell’azione, bilancia meravigliosamente questo aspetto più tassonomico e precisino legato all’accumulo. Il risultato è una dinamica di gioco talmente gustosa, equilibrata e appagante da suscitare il desiderio di rigiocare le missioni per perfezionarle, metterci tanto tempo, perdersi nella dinamica di relazione con i nemici, passare ore a intrufolarsi nelle basi, sabotare le comunicazioni radio, prendere tutti alla sprovvista, non uccidere nessuno e agire come una nebbia invincibile. Se non si ha fretta, Metal gear solid V: the phantom pain può andare serenamente oltre le cinquanta ore di gioco.

La Kojima Productions non ha solo fatto la serie Metal gear, e presto realizzerà qualcosa di nuovo e diverso. Con grande patema della comunità, pare che il rapporto quasi trentennale con l’editore Konami si sia concluso per sempre: Konami si vuole concentrare su fonti di reddito diverse dai grandi titoli come Metal gear, come, per esempio, le macchine del pachinko (specie di slot machine a biglie amatissime dai giapponesi) dove è già una potenza.

L’anno scorso Hideo Kojima aveva cominciato a collaborare con il regista Guillermo Del Toro per realizzare con lui un episodio della saga horror di sopravvivenza Silent hill, ma il progetto è affondato quasi subito. Alla presentazione alla fiera di Colonia, davanti a un pubblico adorante, Kojima ha raccontato che da anni guarda tre film a notte. Quando per lavoro sta lontano da casa qualche giorno, i film diventano quattro o cinque, finché non ha ristabilito la media. Dormire poco, ha spiegato, per lui non è un problema.

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