Cosa vuole fare Maurizio Landini da grande? È una domanda che viene posta ormai da mesi. Molti osservatori vedono in lui un possibile Alexis Tsipras o Pablo Iglesias italiano: un leader dalla sicura presa sul pubblico, sia nelle piazze sia nei talk show, il capopopolo di una nuova sinistra radicale capace di dare del filo da torcere al Pd di Matteo Renzi.

Non a caso è l’unico dirigente sindacale inserito dall’istituto di demoscopia Ixè nei suoi sondaggi sul gradimento dei leader politici italiani. Landini è al 19 per cento, al terzo posto dopo Renzi e Matteo Salvini e prima di Beppe Grillo o Silvio Berlusconi.

Ma il sindacalista emiliano nega tassativamente di volersi buttare in politica. Vuole fare altro: vuole aggregare, intorno alla Fiom, una nuova “coalizione sociale”. Non un partito, ma un insieme di associazioni pensato per contrastare le politiche del governo in nome della difesa della costituzione e dei diritti dei lavoratori.

È comprensibile che Landini sia cauto, che non voglia presentarsi come il nuovo leader di una formazione di sinistra radicale. Ne abbiamo visti nascere e appassire già diversi negli ultimi anni, da Nichi Vendola ad Antonio Ingroia. Ed è comprensibile che non si candidi a federare i diversi spezzoni della sinistra più o meno antagonista. Quella sinistra è diventata l’ombra di se stessa: la Sinistra arcobaleno (2008) che mancò l’ingresso in parlamento, Rivoluzione civile (2013) o la Lista Tsipras formata per le europee del 2014, davano la triste impressione di essere fondate non sulla base di un progetto condiviso con entusiasmo, ma sulla pura disperazione di piccoli, tristi e rancorosi partitini sopravvissuti a se stessi. Infatti sono spariti senza lasciare ricordi.

Dunque Landini propone un’altra soluzione. Vuole rimanere sindacalista e, in quanto tale, aggregare qualcosa che sembra più un movimento che un partito. A chi gli rimprovera di andare oltre il mandato sindacale risponde che “il sindacato ha sempre fatto politica”. È vero, se guardiamo gli anni settanta: allora la Cgil, la Cisl e la Uil portavano avanti anche grandi campagne per le riforme sociali.

Ma sta proprio qui la differenza: a quei tempi i sindacati erano sostanzialmente uniti su questi traguardi. La coesione fu possibile anche perché si limitarono a portare avanti un discorso nel merito di alcune questioni politiche, non sugli schieramenti politici.

Landini invece ha in mente un’altra cosa. Ambisce ad aggregare attorno alla Fiom associazioni come Emergency, Arci e Libera per dare voce ai lavoratori, agli esclusi, ai precari. Rimane però da chiarire come una tale aggregazione possa produrre una forza stabile in grado di influenzare la politica (“cambieremo l’Italia più di Renzi, dice infatti Landini). “Coalizioni sociali” sono già esistite nell’Italia degli ultimi anni, dal movimento noglobal di Genova e del Forum sociale europeo di Firenze al movimento referendario per l’acqua pubblica nel 2011. Ma non sono mai riusciti a stabilizzarsi e a durare nel tempo.

C’è poi una seconda ipoteca sul progetto di Landini. Certo, virtualmente c’è un grande spazio a sinistra di Renzi, e c’è un diffuso malcontento nel mondo sindacale nei confronti di un premier che snobba apertamente il dialogo con le parti sociali. Ma Landini non porta il sindacato nella sua coalizione. Trova seguito solo nella sua Fiom, e rispetto alla sua stessa confederazione, la Cgil, il progetto non unisce, ma divide. Già oggi la sinistra italiana si presenta tanto divisa quanto afona, dalle minoranze del Pd ai partitini moribondi della sinistra radicale. Landini si presenta sulla scena proprio per superare quelle divisioni. Invece è probabile che finisca per aggiungerne un’altra. Renzi, a quanto pare, può dormire sonni tranquilli.

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