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La conferenza internazionale sul clima di Parigi

Dal 30 novembre all’11 dicembre 195 paesi hanno discusso un nuovo accordo per ridurre le emissioni, in modo da rallentare il riscaldamento globale.

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I potenti del mondo nel loro bunker

Un attivista partecipa a una manifestazione a Parigi, il 29 novembre 2015, in vista della conferenza internazionale sul clima. (Christophe Ena, Ap/Ansa)

Quale sicurezza stanno difendendo a ogni costo? Quale sicurezza viene sacrificata, anche se ci sono i mezzi per fare di meglio? Queste sono le domande alla base della crisi del clima, e le risposte sono il motivo per cui i summit su questo tema spesso finiscono per scatenare rancore e lacrime. La decisione del governo francese di vietare qualsiasi “attività all’aperto” durante il vertice sul clima di Parigi è preoccupante da molti punti di vista. E soprattutto riflette la fondamentale iniquità della crisi del clima, e le priorità di questo mondo distorto.

La prima cosa da capire è che le persone che subiranno le peggiori conseguenze del cambiamento climatico non hanno praticamente nessuna voce in capitolo nei dibattiti in corso in occidente sulle misure da adottare per ridurre il riscaldamento globale. Le grandi conferenze sul clima sono delle rare eccezioni. Per due settimane ogni due o tre anni le persone che saranno colpite per prime e più duramente hanno un po’ di spazio per farsi sentire nel posto in cui si prendono le decisioni che determineranno il loro destino. È per questo che gli abitanti delle isole del Pacifico, i cacciatori inuit e i neri di New Orleans fanno viaggi di migliaia di chilometri per essere presenti.

La seconda cosa da capire è che perfino in questi rari momenti, quelle voci dal fronte non hanno abbastanza spazio negli incontri ufficiali: i microfoni sono sempre nelle mani dei governi e delle grandi organizzazioni ambientaliste. Le persone comuni possono far sentire la loro voce quasi solo nelle riunioni parallele al vertice, e nelle manifestazioni che attirano l’attenzione dei mezzi d’informazione. Ma il governo francese ha deciso di zittire questi megafoni, sostenendo che per garantire la sicurezza durante le manifestazioni dovrebbe trascurare la zona in cui si svolge il summit ufficiale.

Reazione rivelatrice

Qualcuno ha detto che è una scelta comprensibile dopo gli attentati del 13 novembre. Ma una conferenza sul clima delle Nazioni Unite non è un vertice del G8, dove i potenti s’incontrano e quelli che non hanno potere cercano di andare alla festa senza essere stati invitati. Gli eventi paralleli della “società civile” non sono semplici appendici all’evento principale: sono parte integrante del processo. Ed è per questo che non bisognava permettere al governo francese di annullare una parte del vertice. Il governo avrebbe invece dovuto valutare se, dopo i terribili attacchi terroristici, voleva e poteva ancora ospitare il summit. Se non era in grado di farlo, avrebbe dovuto rimandarlo o chiedere a un altro paese di ospitarlo. Invece Hollande ha preso una serie di decisioni che riflettono valori e priorità molto specifici su chi ha il diritto di essere protetto. Ne hanno diritto i leader del mondo, le partite di calcio e i mercatini natalizi, ma non i cortei organizzati per ricordare che nei negoziati è in gioco la vita di milioni di persone.

La decisione di non concedere gli spazi per manifestare è la palese dimostrazione di abuso di potere

Vale la pena di riflettere su cosa significa, in termini sia reali sia simbolici, la decisione di non autorizzare le manifestazioni. Quella del cambiamento climatico è una crisi morale: ogni volta che i governi dei paesi ricchi evitano di affrontare il problema, dimostrano che il nord del mondo sta mettendo i suoi bisogni e la sua sicurezza economica davanti alla sofferenza di alcuni dei popoli più vulnerabili della Terra. La decisione di non concedere gli spazi per manifestare è la palese dimostrazione di questo abuso di potere: ancora una volta, un ricco paese occidentale mette la sicurezza delle élite davanti agli interessi di quelli che lottano per sopravvivere.

Sto scrivendo queste parole da Stoccolma, dove ho partecipato a una serie di incontri pubblici sul clima. Quando sono arrivata, la stampa era in sobbuglio a causa di un tweet di Åsa Romson, la ministra dell’ambiente svedese. Subito dopo gli attentati di Parigi, Romson aveva espresso la sua tristezza per le vittime, e in seguito aveva scritto un altro tweet in cui affermava che era una brutta notizia anche per il vertice sul clima. Una considerazione che era venuta in mente a tutte le persone che conosco coinvolte in qualche modo nelle battaglie ambientali. Eppure la ministra è stata messa alla gogna per la sua presunta mancanza di sensibilità: come poteva pensare al cambiamento climatico dopo una simile carneficina?

Questa reazione è stata rivelatrice, perché implicava l’idea che in fondo il cambiamento climatico è un problema secondario, una causa senza vere vittime, anche un po’ frivola. Mi ha fatto tornare in mente una frase di Rebecca Solnit: “Il cambiamento climatico è violenza”. E in effetti lo è. In alcuni casi è una violenza lenta, come quando l’innalzamento del livello dei mari cancella un po’ alla volta interi paesi. In altri casi è terribilmente veloce, per esempio quando gli uragani uccidono migliaia di persone in pochissimo tempo. È una violenza così enorme e inflitta simultaneamente ad antiche culture, vite attuali e future, che non esiste ancora una parola in grado di contenere tutta la sua mostruosità. E usare un atto di violenza per mettere a tacere quelle che saranno le principali vittime della violenza del clima è ulteriore violenza.

Quando ha spiegato perché le partite di calcio si sarebbero giocate regolarmente, il ministro dello sport francese ha detto: “La vita deve andare avanti”. È vero. È per questo che ho deciso di far parte del movimento per la giustizia climatica. Perché quando i governi e le aziende dimostrano di non riconoscere il valore di tutte le forme di vita della Terra, devono essere contestati.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2015 a pagina 57 di Internazionale, con il titolo “I potenti del mondo nel loro bunker”. Compra questo numero| Abbonati_. È stato pubblicato la prima volta sul Guardian. Clicca qui per vedere l’originale._


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