Il mese scorso si è concluso il processo all’ex presidente liberiano Charles Taylor di fronte al tribunale internazionale sulla Sierra Leone. Il procuratore capo, il giurista statunitense David Crane, ha dichiarato al Times di Londra che il caso era incompleto: i pubblici ministeri volevano incriminare anche Muammar Gheddafi, “responsabile della mutilazione e dell’uccisione di 1,2 milioni di persone”. Ma gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri paesi sono intervenuti per impedirlo. Quando gli hanno chiesto il motivo di questo intervento, Crane ha risposto: “Benvenuti nel mondo del petrolio”.
Il problema del petrolio è alla base delle vicende di questa regione ed è un’utile guida per capire le reazioni occidentali alle inaspettate rivolte per la democrazia nel mondo arabo. Al dittatore di un paese ricco di greggio che è un cliente affidabile di solito viene concessa mano libera. Non ci sono state molte reazioni quando l’Arabia Saudita ha dichiarato il 5 marzo che “le leggi e i regolamenti del regno vietano manifestazioni o sit-in di protesta e li condannano perché contrari ai princìpi della sharia e alle tradizioni saudite”. Il regno ha poi mobilitato le forze di sicurezza perché applicassero rigorosamente il divieto.
Liberi tutti
Le piccole dimostrazioni scoppiate in Kuwait sono state subito represse. Il pugno di ferro ha colpito anche in Bahrein, con l’aiuto dei sauditi, per garantire che la monarchia sunnita minoritaria non fosse destabilizzata da richieste di riforme democratiche. Il Bahrein è importante perché ospita la quinta flotta degli Stati Uniti e perché confina con le aree sciite dell’Arabia Saudita, dove si trova quasi tutto il petrolio del regno. Gran parte dell’energia del mondo si trova vicino al golfo Persico settentrionale, una zona in gran parte sciita come l’Iran, e questo preoccupa molto gli occidentali.
In Egitto e Tunisia le rivolte popolari hanno ottenuto straordinarie vittorie ma, come riferisce il centro studi Carnegie Endowment for international peace, “i regimi ora sono apparentemente decisi a frenare lo sviluppo democratico. Un cambiamento delle élite dominanti e del sistema di governo è ancora un obiettivo lontano”, e all’occidente va bene così. La Libia è un caso diverso, un paese ricco di petrolio governato da un brutale dittatore, che però è inaffidabile. Quando sono scoppiate le prime proteste non violente, Gheddafi le ha subito stroncate.
Il 22 marzo, mentre le sue forze convergevano su Bengasi, la capitale dei ribelli, l’alto consigliere di Obama per il Medio Oriente Dennis Ross ha avvertito il presidente che se ci fosse stato un massacro, “tutti avrebbero dato la colpa agli Stati Uniti”. L’occidente non voleva che Gheddafi rafforzasse il suo potere e la sua indipendenza soffocando la ribellione. Gli Stati Uniti hanno quindi votato a favore della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che istituiva una no-fly zone, garantita da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. L’intervento ha impedito una strage, ma è stato anche considerato come un via libera al sostengo ai ribelli.
Alle forze di Gheddafi è stato imposto il cessate il fuoco, mentre i ribelli sono stati aiutati ad avanzare verso ovest. In breve hanno conquistato, almeno temporaneamente, i principali siti di produzione del petrolio in Libia. Il 28 marzo il quotidiano arabo Al Quds al Arabi ha avvertito che l’intervento potrebbe provocare la spartizione della Libia in “due stati: uno ricco di petrolio in mano ai ribelli a est e uno povero a ovest governato da Gheddafi”. Dato che i pozzi di petrolio sono stati conquistati, potremmo anche trovarci di fronte a un nuovo emirato del petrolio, con pochi abitanti, protetto dall’occidente e molto simile agli statarelli del golfo Persico.
Controllo totale
Si sente dire spesso che il petrolio non può essere stato il motivo dell’intervento perché l’occidente aveva già accesso a quel tesoro con Gheddafi. Questo è vero, ma è irrilevante. Quello che l’occidente vuole è il controllo totale, o almeno dei soci in affari affidabili e, nel caso della Libia, l’accesso a vaste zone inesplorate probabilmente ricche di greggio.
L’intervento è guidato da tre storiche potenze imperiali (anche se bisogna ricordare che dopo la prima guerra mondiale l’Italia commise un genocidio nella parte orientale della Libia). Le forze occidentali stanno agendo praticamente da sole. I grandi stati della regione, Egitto e Turchia, sono contrari all’intervento, e anche i paesi africani. I dittatori del golfo Persico sarebbero felici di cacciare Gheddafi, ma partecipano alle operazioni militari solo formalmente. Lo stesso vale per l’India, il Brasile e perfino la Germania.
La primavera araba ha radici profonde. La regione è in fermento da anni. La prima protesta dell’ondata attuale è cominciata l’anno scorso nel Sahara Occidentale, l’ultima colonia africana, invasa dal Marocco nel 1975 e occupata illegalmente da allora, come Timor Est e i Territori palestinesi. Nel novembre 2010 una protesta non violenta è stata soffocata dall’esercito marocchino. La Francia è intervenuta per bloccare un’inchiesta del Consiglio di sicurezza sui crimini del suo alleato. Poi in Tunisia si è accesa una fiamma che ormai è diventata un incendio.
*Traduzione di Bruna Tortorella.
Internazionale, numero 892, 8 aprile 2011*
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