*(Chris Turner, Getty Images)
Secondo lo psicologo di Yale Paul Bloom, il mondo ha bisogno di un po’ meno empatia. Sì, lo so che suona male, e lo sa anche lui: come ha dichiarato qualche tempo fa alla Boston Review, “è come dichiarare che odiate i gattini”.
In un mondo che palesemente soffre di quello che Barack Obama chiama “deficit di empatia”, sembra un’affermazione paradossale e gratuita. Diverse ricerche hanno dimostrato che le persone empatiche sono più altruiste e che questo sentimento è associato a rapporti umani migliori.
Roman Krznaric, autore di Empathy, pensa che l’estrospezione (il deliberato tentativo di comprendere le esperienze altrui) potrebbe contribuire a risolvere quasi tutti i problemi, dalla disuguaglianza al cambiamento climatico. Bloom si è forse convertito ai vaneggiamenti di Ayn Rand? Quella mattina era sceso dal letto con il piede sbagliato? In realtà secondo me non ha tutti i torti.
Il problema è che l’empatia, lo sforzo di sentire o capire quello che provano gli altri, non sempre ci aiuta a fare del bene. Tanto per cominciare, ci è più facile provarla per le persone che hanno un bell’aspetto e per quelle della nostra stessa razza, quindi più ci lasciamo guidare dall’empatia, più rischiamo di essere influenzati da questi pregiudizi.
Un’altra trappola è il cosiddetto effetto della vittima identificabile, che ci fa preoccupare di più per un unico bambino scomparso che non per le migliaia che potrebbero essere danneggiati da una certa politica del governo, per non parlare delle vittime ancora non nate del futuro riscaldamento globale.
Bloom cita l’economista Thomas Schelling: “Se una bambina di sei anni con i capelli chiari ha bisogno di qualche migliaio di dollari per sottoporsi a un intervento che prolungherà la sua vita fino a Natale, arriveranno fiumi di donazioni. Se si viene a sapere che senza un aumento dell’iva gli ospedali del Massachusetts non avranno abbastanza fondi e questo provocherà un leggero aumento dei decessi evitabili, nessuno verserà una lacrima”. Un eccesso di empatia può anche danneggiare chi la prova: è stato dimostrato che a volte provoca esaurimenti nervosi e depressioni, che non rendono certo più capaci di aiutare gli altri.
È difficile accettare che a volte potremmo avere una visione più chiara del mondo se resistiamo alla tentazione di metterci nei panni degli altri. Ma a volte evitare le personalizzazioni è il modo migliore per prendere decisioni. È per questo che le interviste di lavoro possono portare a scelte più basate sul merito ed essere meno condizionate dal sessismo o dal razzismo se non prevedono un incontro faccia a faccia e si basano solo su test strutturati. Secondo l’economista Tyler Cowen per chiedere un’opinione è meglio non usare la formula “Che cosa ne pensa?”, ma “Secondo lei, che cosa pensa la maggior parte delle persone?”.
Piuttosto che di empatia, conclude Bloom, abbiamo bisogno di compassione: un sentimento più freddo e razionale, “un modo più distaccato di amare, essere gentili e preoccuparci per gli altri”. Un suo parente che si sta sottoponendo a una cura per il cancro non ama l’eccesso di empatia da parte dei medici, ma “preferisce i dottori che sono calmi quando lui è ansioso, fiduciosi quando lui è incerto”.
Come ha scritto il comico Jack Handey, prima di criticare qualcuno fatti una passeggiata di un chilometro nei suoi panni, così sarai a un chilometro di distanza e potrai tenerti i suoi panni. Ma se vuoi aiutarlo, forse ti conviene tenerti i tuoi vestiti. Invece di provare il suo dolore, non sarebbe meglio fare qualcosa?
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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